Buon Compleanno GKQuello che abbiamo imparato (e mangiato) in questi due anni

Il 14 aprile di due anni fa, nel bel mezzo di una pandemia mondiale, nasceva questo progetto folle e decisamente coraggioso. Settecento giorni dopo siamo ancora qui e questo è il nostro racconto appassionato di ciò che abbiamo vissuto, visto e amato di più di questa fantastica avventura insieme

La Redazione di Gastronomika ha provato a rispondere a due domande, per festeggiare il secondo anniversario del nostro giornale. Ecco le risposte e le riflessioni di chi ogni giorno vi racconta il mondo del cibo e del vino da questo osservatorio nato esattamente due anni fa.

Che cos’è la cosa più buona che hai scoperto in questi due anni?
La cosa più buona che ho scoperto nei primi due anni di vita di Gastronomica non è un alimento. Ma è la capacità di aggregare storie e persone che questo piccolo progetto editoriale ha portato con sé. Partire con un nuovo giornale in piena pandemia è stato un grande azzardo: è servito del coraggio, e anche una giusta dose di incoscienza. A distanza di due anni, e con la pandemia in regressione ma una guerra a pochi passi da noi, il coraggio di resistere è indispensabile. Accompagnare i lettori in questi 700 giorni è stato stimolante, difficile, entusiasmante ma anche complesso. In mille occasioni ci siamo chiesti se e come raccontare la situazione contingente: anche quando il mondo soffre, per una malattia globale o per una guerra vicina, si può continuare a parlare di cucina? L’abbiamo chiesto a voi lettori, che ci avete rassicurato sulla vostra necessità di leggerezza anche in momenti così bui. Abbiamo provato a farlo con garbo, dando spazio sulle nostre pagine alla quotidianità fatta di cibo ma anche di riflessione, ricordando sempre che la cucina è parte della storia che stiamo vivendo e in qualche modo la racconta e la determina. Cercare di fissare in parole questo momento così complesso, usando il filtro dell’enogastronomia, è la “cosa” buona che ho imparato da Gastronomika, e che spero abbiate colto nei nostri articoli e nei nostri racconti digitali. La speranza? Di poter prestissimo tornare al nostro progetto originale, quello che stavamo costruendo e immaginando a inizio 2020, e che poi è stato travolto dalla storia. Lo ricostruiremo insieme.
AP

Nel 2017, molto prima di incrociare la mia strada con quella di Gastronomika, ho vissuto un’incredibile avventura culinaria e culturale in Cina. Nessuno, allora, poteva mai immaginare gli stravolgimenti degli anni futuri e tutti guardavano a questo grande Paese come all’ultimo posto dove sentirsi davvero stranieri nel mondo. Negli hutong di Pechino, ho mangiato le cose più strane, in cui nessun menu con fotografie ti può aiutare ad immaginare nemmeno lontanamente cosa stai per mettere in bocca. Sono finita in un ristorante tibetano, a rimestare in brodaglie fetenti. Con i miei amici ci siamo fatti deridere davanti a una ciotola di acqua bollente con qualche pezzo di verdura, pensando di star vivendo il vero rito dell’Hot Pot (oggi non sbaglieremmo). Abbiamo cenato a base di agnello, in un posto dove il pavimento era lastricato di cocci e sigarette. Ho fatto colazione per strada, con un bao tze pagato 5 cent. Ma ho anche scoperto quanto la Cina abbia costruito la sua gastronomia per rivelarsi al mondo, andando in un ristorante di lusso e trovando le stesse pietanze del cinese sotto casa. L’esperienza gastronomica più incredibile non ha dunque niente a che vedere con il fine dining o con la ricercatezza. Ha a che vedere con l’ignoto, con la sfida a tavole sconosciute, unico brivido culinario che forse ci è rimasto e a cui stiamo rinunciando ormai da troppo tempo.
SL

Il piatto più sorprendente di quest’ultimo anno è una radice: di loto, per l’esattezza, brasata e glassata alla salsa di soia, gel di mandarino, fondo, aioli, salsa di peperone alla fava tonka. È stato il primo piatto del menu degustazione di Immorale Osé, il ristorante di via Tadino, a Milano, che provoca i gusti dei suoi clienti in un locale che non ti aspetti, perché fuori dai classici – spesso caotici – canoni milanesi e più raccolto in una dimensione sussurrata, dove cucina e servizio di sala risultano ineccepibili. A differenza delle radici che mangiamo abitualmente, quella di loto vive praticamente in acqua o in terre fangose, ma solo la cottura prolungata in acqua bollente riesce ad ammorbidirla abbastanza da renderla commestibile e farle rilasciare una sostanza zuccherina che completa il piatto di Immorale Osé. Per dovere di cronaca, tutto il menu è stato ottimo.
AC

Poco lontano da Viterbo e dal suo splendido centro medievale, i Monti Cimini disegnano un paesaggio incantato: boschi verdi e fitti di noccioli e castagni, piccole strade da percorrere adagio per esplorare il territorio, paesini arroccati sulle alture, come sospesi nel tempo, le acque blu del lago di Vico, e la possibilità di assaggi golosi e genuini, prodotti poco noti, ricette antiche, sapori da scoprire. Come quello del prosciutto Buccia Nera, la cui particolarità risiede nello stucco, nero di carbone, che ripropone l’antica usanza di far riposare i salumi sotto la cenere. E poi il sapore dei lamponi, quello delle nocciole, dei funghi porcini. E ancora i formaggi, come la caciotta con le nocciole o la ricotta, deliziosa se leggermente impanata e cotta sulla griglia o se addolcita con un filo di miele. I ristoranti della zona offrono con orgoglio questi prodotti, e li elaborano in ricette semplici e tradizionali, capaci di raccontare l’essenza vera di una regione che sa sorprendere.
DG

In questi due anni ho fatto cose che non avrei creduto possibili come bere alle nove della mattina, a stomaco quasi vuoto, una verticale di ventisette etichette di Nebbiolo uscendo dalla sala degustazione camminando ancora sulle mie gambe; o mangiare, con insospettabile soddisfazione, della carne di piccione servita cruda. Non avendo mai scritto di cibo in senso stretto, quasi ogni evento è stato denso di aspettative, curiosità e scoperte. Ma l’esperienza più sensazionale è stato l’incontro con il Katsu-sando, il tipico panino che in Giappone di solito farciscono con carne di maiale impanata e fritta. Un piatto commovente nella sua semplicità: due fette di pane e una fetta di carne croccante. Ora pensate di trasportare questo tipico street food da Tokyo a Torino, togliete la confusione di una strada trafficata dell’estremo Oriente e sedetevi a un tavolo con il tovagliato bianco. Nella abili mani dello chef quel panino si trasformerà in qualcos’altro: la versione sublimata che ne fa Federico Zanasi del ristorante Condividere, una stella Michelin all’interno del quartier generale Lavazza, è nel mio personale Olimpo delle cose buone, belle e giuste. Buono perché al primo morso la meringa salata che simula il pan carrè apre piacevolmente la strada alla morbidezza della carne, una Fassona piemontese dal cuore rosa; bello perché perfetto nella sua composizione, con le sfumature di cottura in sequenza avvolte da un velo di panatura croccante; giusto perché della grandezza adatta: non troppo piccolo da illudere, non troppo grande da saziare. In una parola, perfetto.
CS


Come potremmo migliorare il nostro lavoro? 

Meno, e meglio. Mi piacerebbe che il nostro lavoro cambiasse come è cambiato il design. Ma soprattutto mi piacerebbe che in questo settore riportassimo il focus sulle professioni – e sono tantissime – che stanno dietro a questa meravigliosa filiera e che abbiamo smesso di raccontare per concentrarci sul mondo degli chef. Limitante rimanere alla superficie, e far conoscere al grande pubblico solo quei personaggi che sono alla fine della catena produttiva.
L’Italia è piena di storie e di persone, di professioni e di specificità: provare a metterle in luce porta a due risultati, entrambi significativi. Portare sempre più persone a scoprire antichi mestieri e renderli contemporanei e appetibili, ma soprattutto riportare i giovani nei piccoli comuni, nelle piccole realtà di provincia, ripopolando il territorio e restituendo dignità a quei borghi che tanto ci invidiano all’estero e che noi stiamo abbandonando. Tornare lì, ridare dignità al lavoro e alle zone meno frequentate ci permette di garantire un futuro di bellezza al nostro Paese. La comunicazione specializzata può davvero fare la differenza e può aiutare a rendere l’Italia più bella non solo a parole, ma contribuendo a fare in modo che i giovani investano il loro futuro su questa filiera, la migliorino, la rendano più sostenibile per il Pianeta e per loro stessi, facendoci imparare a pagare il giusto per quello che mangiamo. Allo stesso tempo riusciremo a non perdere competenze e professionalità, che altrimenti scomparirebbero, e contribuiremo a far rimanere splendida la nostra nazione. Ricca di microterritori, piccole realtà e infinita biodiversità.
AP

Il lavoro del giornalista enogastronomico sta diventando sempre più difficile. I fronti aperti sono tre. Il primo, naturalmente, è economico. Si narra di tempi in cui le redazioni rimborsavano i pranzi e le cene dei professionisti incaricati di recensire nuove aperture e vecchie glorie. Oggi il tutto è affidato a una fitta e necessaria rete di relazioni, a cui restituire immagini lusinghiere e sempre in bilico tra tradizione e innovazione. E guai a scrivere una parola fuoriposto o, per pudore, a non scrivere! Si viene banditi, messi in liste nere, evitati. Se le redazioni riuscissero a carpire il segreto economico per sopravvivere in questo tempo, in cui ognuno può diventare un megafono gastronomico, pur senza competenze, avremmo la necessaria indipendenza per dire la verità e per divertire. Ma non ci sarebbe industria editoriale senza capacità di ascolto: dei lettori, ma anche degli operatori. I ristoratori dovrebbero ascoltare le critiche e non assumerle come atti di lesa maestà. I non citati dovrebbero guardare ai citati come esempi a cui ispirarsi per fare meglio. I giornalisti stessi dovrebbero ascoltare di più sé stessi e fidarsi del proprio istinto, andando in caccia della notizia nel piatto, quando c’è, senza dover avere paura di dire la propria quando qualcosa proprio non va. Rendersi liberi, oggi, è un privilegio di pochi, che scrivono per hobby dopo aver timbrato il cartellino. Per gli altri, trovare una soluzione è sempre più urgente.
SL

Quella sera della cena ripensavo alla straordinarietà delle radici, all’impatto che hanno avuto e che hanno nella cultura gastronomica di ogni popolazione, ma anche di come siano organi botanici capaci di azioni straordinarie per la vita del vegetale. Percepiscono l’acqua a distanza e si fanno spazio nella terra fino a raggiungerla, immagazzinarla e trasferirla. Per non parlare della garanzia di ancoraggio e solidità di tutta la pianta. Mi piacerebbe molto che il mestiere di chi scrive di cibo fosse ispirato alle radici: provare ad andare più a fondo, alla ricerca di quello che altri non possono vedere, ma di cui c’è bisogno. Noi autori dovremmo a volte diventare radice, cercando direttamente alla fonte senza aspettare che sia lei a venire da noi. Tutto per evitare che il dibattito sul tema gastronomico si inaridisca e perda di stabilità.
AC

«Non finire mai una frase con una preposizione e non la cominciare mai con i due punti». Il consiglio che Jack Lemon in Prima pagina dispensa al giovane giornalista in cerca di una guida, contiene un’ironia e una leggerezza di cui oggi non sembriamo più essere capaci. Ma contiene anche un’altra cosa: dice l’importanza, apparentemente ovvia, di scrivere bene. Scrivere bene vuol dire rispettare la propria lingua e rispettare chi legge quello che si scrive. Leggerezza e chiarezza sono sempre importanti, ma diventano essenziali quando l’argomento è il cibo: un tema che deve essere affrontato con competenza e divulgato in modo leggibile. Ma chi parla di cibo non deve prendersi mai troppo sul serio.
DG

Mi piacciono i posti imperfetti, sinceri, fedeli a sé stessi. Quel genere di locali dove si bada più alla sostanza che alla forma, con le voci del menu scritte a mano, i piatti raccontati al volo, le posate avvolte nel tovagliolo di carta, i bicchieri piccoli di vetro e il nome del proprietario nell’insegna: sono i Piero, le Giovanna, le Gemma che hanno tramandato ai figli e poi ai nipoti il mestiere del ristoratore. E lo hanno fatto continuando un’idea di ristorazione che è accoglienza, convivialità, socialità, fatto tenendo bassi i prezzi – non per forza la qualità – servendo il minestrone di verdure e il cotechino con purè mentre il resto del mondo si riempiva di sushi e poke. In Piemonte posti così si chiamano piole, nel resto d’Italia trattorie. Tranne in rari casi, in locali come questi la critica gastronomica non si avvicina, eppure da lì passa un pezzo di storia che rischiamo di perdere. Mi piacerebbe leggere storie coraggiose, meno mainstream e Instagram e più sostanza.
CS

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