Lirici spioniGli agenti della Stasi che scrivevano poesie di propaganda

Per il ministero della sicurezza della Ddr, i versi e le figure retoriche, i meccanismi compositivi e le rime potevano costituire una nuova arma contro il sistema occidentale. L’obiettivo, spiega Philip Oltermann nel suo libro (Utet), era di stanare il nemico e controbattere sul piano dello stile. Ma le cose andranno in modo diverso

©lapresse

Volendo raccontare diversamente le origini dell’esperimento socialista della Germania Est, si potrebbe partire dal ritorno di un altro scrittore sfuggito ai nazisti: Friedrich Wolf. Nato nel 1888 in Renania, Wolf incarnava tutto ciò che i nazisti disprezzavano: ebreo, in seguito all’esperienza da chirurgo militare sui campi di battaglia della prima guerra mondiale era diventato dapprima un ardente pacifista, poi un bolscevico tesserato; nelle sue prime opere teatrali propugnava la legalizzazione dei contraccettivi e l’abolizione del paragrafo 218 del codice penale tedesco, che vietava l’aborto.

Da un punto di vista geografico la sua esperienza della seconda guerra mondiale era stata molto più movimentata di quella di Becher: dalla Germania era finito in Francia, dalla Francia a Mosca, da Mosca di nuovo in Francia (benché fosse diretto in Spagna, dove avrebbe voluto unirsi alle brigate internazionali), poi in un campo di internamento, e infine di nuovo a Mosca con un passaporto falso – il tutto con una moglie, tre figli e una sfilza di amanti al seguito. Come Becher, anche Wolf fu chiamato a costruire il settore culturale della nuova repubblica tedesca orientale non appena mise piede sul suolo berlinese nel 1945: fu tra i fondatori dello studio cinematografico Defa e della sede tedesca di Pen International, oltre a pubblicare la rivista d’arte “Kunst und Volk” e a presiedere l’associazione dei teatri della Germania orientale. Nel 1949 il presidente della Ddr nominò Wolf ambasciatore in una “repubblica sorella”, la Polonia.

Se Johannes Becher era l’angelo idealista che intonava dolci melodie su una repubblica fondata sulla poesia, Friedrich Wolf era il diavoletto che sussurrava all’orecchio della Ddr un messaggio ben più crudo. In una breve favola del 1922 un’oca di nome Begbeg esprime la propria esasperazione nei confronti del compagno usignolo: mentre Begbeg si dà da fare ogni giorno per nutrirsi e, prima o poi, nutrire il suo padrone, l’usignolo non alza un dito, eppure il contadino lo adora. «Scansafatiche, cosa fai tutto il giorno?» chiede Begbeg.

Leggendo tra le righe non è difficile riconoscere nell’usignolo il tipo di poeta che Becher ammirava e nell’oca laboriosa l’incarnazione dell’ideale poetico di Wolf. Un poeta adatto all’età moderna, secondo Wolf, doveva scrivere «senza fronzoli né orpelli», «senza sentimentalismi, psicologia… e ambiguità». I suoi gusti erano così austeri che in un saggio diceva di aspirare a uno stato in cui la pelle fosse un bene di lusso inaccessibile, affinché uomini e donne ricominciassero a vagare per le strade di Berlino a piedi nudi, a contatto con la terra, come Dio li aveva creati (non sorprende che Wolf fosse uno dei principali sostenitori del nudismo nella Repubblica di Weimar).

Mentre Becher aveva fatto pressione sui politici affinché conferissero alla letteratura uno status speciale, Wolf puntava il dito contro gli scrittori: se volevano godere di privilegi nel futuro stato socialista, dovevano contribuire alla causa con le loro opere. Una letteratura di mero intrattenimento, «lusso, caviale e oppio», pensata solo per distrarre i lavoratori dal «grigiore quotidiano», non era sufficiente. L’arte impiegata a mo’ di «stampella» nell’educazione dei lavoratori era ancora peggio. Se Prometeo voleva che la sua ribellione contro gli dèi perdurasse, doveva consegnare il fuoco nelle mani del popolo. L’arte era un’arma – uno slogan che Wolf stesso coniò in una poesia del 1928 e poi riaffermò in un discorso dello stesso anno: «La materia della nostra epoca è davanti a noi, dura come il ferro. I poeti lavorano per forgiarne un’arma. Sta all’operaio raccoglierla».

Lo slogan di Wolf era più vecchio dell’idea di una repubblica socialista tedesca, eppure continuava a far presa. Nel 1957 il movimento Freie Deutsche Jugend adottò la frase come motto della sua missione culturale e fino agli anni ottanta organizzò eventi con questo titolo. Nel settembre del 1981 Konrad Wolf, uno dei quattro figli di Friedrich e influente regista, tenne un discorso intitolato “L’arte è un’arma” di fronte agli alti ufficiali della Nationale Volksarmee, le forze armate della Germania Est. Soprattutto all’interno degli uffici della Stasi la frase di Wolf era nota a tutti, al pari del verso iniziale dell’inno della Ddr, e questo non solo perché un altro dei suoi figli, Markus, era il capo del servizio di intelligence estera, di fatto il numero due della polizia segreta.

Nel 1980, in occasione del centotreesimo anniversario della nascita di Feliks Dzeržinskij, ciascun membro del Wachregiment di Adlershof ricevette un opuscolo con un panegirico che Friedrich Wolf aveva dedicato al fondatore della polizia segreta dell’Unione Sovietica. Dzeržinskij aveva sempre fatto sì che «il contenuto delle opere letterarie degli scrittori cekisti» potesse essere impiegato come «arma nella lotta ideologica di classe contro l’imperialismo», Wolf volle ricordare ai soldati. L’ideale fantasioso di Becher di una “società della letteratura” era affascinante, ma difficile da realizzare. L’idea che la poesia potesse essere un’arma segreta era molto più pratica a confronto, specialmente se la tua intera esistenza era votata a combattere i nemici del socialismo.

da “Il circolo di poesia della Stasi. Una strana storia di spie e sonetti nel pieno della guerra fredda”, Utet, 2022, pagine 266, euro 18

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