Mia figlia recentemente mi ha aperto un mondo: Supreme. I significati di drop, hype, streetwear, le file notturne mi hanno incuriosito e nell’entrarvi ho scoperto molto di più di un fenomeno legato solo alla moda del momento. Si tratta di un incredibile mix di tecniche di marketing, nuovi e vecchi fenomeni sociali, uso mirato di social, partnership inaspettate, effetti da globalizzazione, scontro tra ricchi, nuovi ricchi e classe media, una polifonia di pulsioni umane (positive e negative) più che un mero tema di fashion o di moda in senso stretto.
Partendo dal primo negozio fondato nel 1994 a New York a Soho, in piena Manhattan, da James Jebbia, un boomer amante dello skateboard e interprete della cultura streetwear, Supreme è arrivata a valere oltre due miliardi di dollari, il prezzo pagato dal colosso americano VF Corporation (società quotata alla borsa di New York proprietaria di marchi famosi quali Vans, Timberland, The North Face) lo scorso 2020 (nel 2017 il Fondo Carlyle Group comprò il 50% delle azioni per 500 milioni di dollari valutando quindi l’azienda 1 miliardo di dollari).
Nei giorni scorsi in tutto il mondo per comprare il nuovo orologio nato da una collaborazione tra Swatch e Omega si sono viste persone (non solo giovanissimi) mettersi in fila la sera prima di fronte al negozio che avrebbe aperto al mattino per accaparrarsi un orologio di edizione limitata a un prezzo abbordabile. Questi due fattori – disponibilità limitata e prezzo abbordabile – sono gli ingredienti principali del successo di Supreme.
Mr. Jebbia aveva ben chiaro un claim: «Se possiamo venderne 600, ne produciamo 400», che abbinato a un prezzo abbordabile da una fascia media rendeva i suoi “drop” irresistibili. Due collezioni all’anno con consegne settimanali sia online sia in negozio ora soprannominate “Supreme Thursday” con nuove uscite ogni settimana alle ore 11:00 ora di Greenwich.
Nell’agosto 2017 una maglietta nera con una fotografia del rapper NAS andò esaurita nel Regno Unito in 18 secondi, mentre tutti e sei i colori sparirono in 53 secondi.
Ulteriore testimonianza dell’effetto “hype” è l’aumento del traffico sul sito pari al 16.800% ogni giorno dopo il rilascio di un nuovo prodotto.
La fatica (ore di coda notturne) che bisogna sopportare per comprare uno dei pezzi in edizione limitata in una logica di attesa folle o insensata (hype) ha creato un mondo nuovo con diverse sfaccettature. Da chi lo fa di mestiere per poi rivendere a 5/6 volte il prezzo, a chi è più ricco e non vuole fare coda, al punto di aver generato un vero e proprio mercato secondario con migliaia di capi venduti on-line. Da chi addirittura si spinge a dichiarare – vedi il New York Times dell’agosto 2017: “The Cult of the line: it’s not about the merch” – che fa la fila perché ama stare in fila o meglio vuole far parte della fila dove riesce a fare amicizia e vivere un’esperienza unica. Una fila, in caso di eventuale successo, coronata da uno scatto su Instagram accanto al proprio trofeo (un berretto, una t-shirt o una felpa).
Senso di appartenenza nel fare, senso di appartenenza nel possedere, potremmo dire, entrambi riconducibili all’esigenza di far parte di una comunità per essere riconosciuti. Ma anche un rompere alcuni vecchi schemi legati alla logica elitaria della moda. «Non ho mai fatto skate davvero, ma mi piacevano le grafiche e lo spirito di ribellione», disse Jebbia in un’intervista nel 2019 rilasciata a Interview, l’iconico periodico fondato da Andy Wharol.
Un senso di ribellione allo status quo, alle parametrazioni scontate, età, sesso, ricchezza, origine, ecc. e una ricerca di nuova libertà, di un nuovo senso di appartenenza. «L’individualità si è svuotata. Le persone non vogliono più essere classificate per età, genere o secondo altri parametri demografici, ma preferiscono essere fedeli a singole tribù unite da interessi comuni, principi, cause politiche, stili di vita condivisi», spiega la canadese Armida Ascano, esperta di comportamento dei consumatori e tendenze generazionali nell’era digitale, responsabile dell’Insights Officer di Trend Hunter.
Quindi riconoscibilità (senso di appartenenza) aggiunta a riconducibilità (logomania) attraverso un brand “cool&cult” sorretto da una straordinaria architettura di marketing con soli 14 negozi al mondo e tante importanti collaborazioni con altri brand molto noti quali Nike, Comme des Garçons, Levi’s, The North Face o marchi lifestyle quali Budweiser o Braun. Ai quali aggiungere artisti e icone culturali: giusto per citarne alcuni Damien Hirst, Kate Moss e Kermit la rana.
Nessuno avrebbe mai pensato che gli opposti si combinassero ma nel 2017 Louis Vuitton e Supreme sfilano insieme sulle passerelle esclusive di Parigi facendo coesistere le tipiche t-shirt con il famoso logo stampato e vendute a 36 dollari con il baule “Supreme for Louis Vuitton” venduto tra i 70 e 90 mila dollari! Una rivoluzione all’interno della moda legata al lusso che ha visto forti critici e grandi sostenitori ma che in buona sostanza avvicina la logica del “brand di culto” alla classe media. Ma che attrae anche chi è avvezzo a comprare solo marchi di lusso.
La streetwear pensata da Supreme ha creato un marchio che è nello stesso tempo “elitario” e “democratico” soddisfacendo così due ambiti di clientela straordinariamente lontani se non opposti. Supreme, quindi, ha raccolto fan di ogni ceto sociale e di differenti generazioni, inducendo i gruppi del lusso a ricercare la stessa “street cred”, letteralmente “reputazione da duro”, che piace ai giovani consumatori in cerca di brand con identità e valori in cui possono riconoscersi e rispecchiarsi.
Sul tema delle nuove identità e della necessità di appartenenza e riconoscimento mi viene in mente Francis Fukuyama, politologo, autore tra gli altri dei libro “Identity” pubblicato nel 2018 che afferma che alla base delle crisi odierne delle liberal democrazie vi sarebbe l’incapacità di risolvere il problema insito nella parola greca thymós (thumos, in inglese), la parte dell’anima che ambisce al riconoscimento (anima emozionale), con due possibili manifestazioni: l’isotimia, cioè l’esigenza di essere rispettati su base paritaria con gli altri individui e la megalotimia, l’ambizione di essere riconosciuti come superiori (quest’ultima, secondo Fukuyama, sarebbe alla base delle politiche dell’identità e dell’ascesa dei nuovi populismi).
Un abbinamento forse forzato ma credo che il crescente astensionismo politico sia indice che le persone con si riconoscono più in identità “di parte” e che la sostenibilità ambientale sia di fatto il “partito non partito” di maggioranza relativa se non forse assoluta. Sarà anche per questo che il gruppo VF sta lavorando intensamente per attuare politiche di sostenibilità ai suoi marchi e in primis a Supreme soddisfacendo quel thymós che ha contribuito al suo successo, oramai una vera offerta di lifestyle, con la continua aggiunta di prodotti nuovi e diversi alla sua gamma delle origini non senza qualche elemento di umorismo.
Supreme ora vende di tutto con stampato il suo logo, chitarre e bacchette, utensili da cucina e calcolatrici, e persino il tanto pubblicizzato – e completamente esaurito – mattone di argilla Supreme da 28 dollari, iconico simbolo del potere del marchio. E si affaccia al mondo del calcio con la recente collaborazione con Umbro, azienda inglese di articoli sportivi. Oltre alle “solite” K-way, t-shirt e felpe ci sono infatti tre diverse varianti di track jacket sportive, con annessi pantaloni e due palloni da calcio. Uno interamente bianco con il logo di Supreme, l’altro con una fantasia bianca, rossa e blu.
Immagino già le chilometriche file notturne.