Corsa a ostacoliI problemi quotidiani delle persone transgender in Italia

Dalla scuola all’età adulta, sono numerose le difficoltà burocratiche che devono affrontare, alle quali si aggiungono problemi nei servizi per la salute e la tendenza altrui a patologizzare la loro condizione

AP Photo/Armando Franca

«Appena si parla di noi, si parla di teorie del gender. Ci hanno disumanizzato. Non si parla di persone ma di teorie. Noi siamo persone con bisogni concreti ma i nostri corpi non sono previsti. Siamo un problema». Christian Leonardo Cristalli, presidente dell’associazione Gruppo Trans di Bologna, non usa mezzi termini per parlare della situazione delle persone transgender in Italia. Piccola premessa: non si tratta di un numero trascurabile. In Italia si stima che ci siano, ad oggi, almeno mezzo milione di persone che non si riconoscono nel genere o sesso che hanno alla nascita.

Sono individui comuni di tutte le età e ogni fascia ha bisogni specifici che, a prescindere da come la si possa pensare, non possono essere ignorati né dalla società né dallo Stato. Farlo equivarrebbe a fingere che città come Genova, Bologna, Bari, Firenze, Catania o Venezia non esistano. Il che risulterebbe alquanto difficile oltreché insensato. Spesso le persone transgender finiscono nelle cronache perché, come chiarisce il professor Paolo Valerio di Onig, Osservatorio nazionale sull’identità di genere, «le denunce di abusi e violenze subite sono all’ordine del giorno: l’Italia rispetto all’Europa è il secondo Paese, dopo la Turchia, che ha il maggior numero di violenze verbali e fisiche fino all’omicidio».

Le violenze sono il lato più evidente, che viene calcolato nelle statistiche. Tuttavia ci sono altre difficoltà quotidiane di cui non si parla e che non entrano nel dibattito mediatico. Quali sono i problemi di ogni giorno che incontrano le persone transgender oggi in Italia? Cosa si potrebbe fare per risolverli? Dalle persone più piccole a quelle più grandi, cerchiamo di fare una panoramica.

Carriera Alias
La comprensione che alla nascita sia stato assegnato un sesso e quindi un genere che la persona non sente proprio avviene di solito già durante l’infanzia o l’adolescenza. Un periodo della vita non facile dove ogni cosa, che può essere una singola parola o un episodio, può segnare l’individuo. Immaginate, ad esempio, se a scuola tutti vi chiamassero con un nome non vostro. Da adulti sembra una quisquilia, ma da adolescenti e preadolescenti no.

Una possibile soluzione è la carriera Alias. «Si tratta – spiega Fiorenzo Gimelli, presidente di Agedo, associazione formata da famiglie e amiche e amici di persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender e qualsiasi altra identità sessuale con sedi in tutta Italia – di un accordo che permette di mettere nel registro elettronico della scuola il nome scelto dalla persona transgender al posto di quello anagrafico, evitando così sofferenze ed episodi di bullismo. L’ansia di essere chiamati davanti ai compagni con un nome assegnato alla nascita nel quale non si riconoscono spinge molti ragazzi e ragazze alla depressione, all’autolesionismo e all’abbandono scolastico».

Ad oggi, grazie al lavoro di Agedo e altre associazioni come Genderlens, sono 68 le scuole in Italia dove è in vigore la carriera Alias. Ma la strada è lunga e un intervento dello Stato sarebbe probabilmente necessario se si considera che le scuole, escludendo le private e senza dati precisi su quelle di Trentino e Val d’Aosta, sono 53.313 tra statali e paritarie. Migliaia di adolescenti e preadolescenti italiani sono quindi senza questo “ombrello”. «Ottenere una carriera Alias nella scuola è veramente una cosa allucinante – ammette Cinzia Messina, presidente di Affetti Oltre il Genere, associazione di genitori di persone transgender presente in Emilia Romagna e genitore di una ragazza transgender – spesso i dirigenti sono restii perché sanno che potrebbero andare incontro a una serie di seccature. Noi ad esempio a Ravenna non siamo riusciti. Eppure non farebbe male a nessuno e semplificherebbe la vita di tanti ragazze e ragazzi in un’età complessa. Non riusciamo a sfondare il nulla, cioè ad ottenere nessun tipo di autodeterminazione con delle lotte disumane: basta il monito di un politico e crolla tutto».

Spogliatoi e bagni
Per adolescenti e preadolescenti non secondario è il problema di bagni e spogliatoi divisi per generi. C’è chi smette di fare sport o chiede l’esonero dall’educazione fisica a scuola per questo motivo. «Prendiamo il caso di un ragazzo che si senta come identità di genere femminile – dichiara Antonella Muraca della sezione di Genova di Agedo e genitore di un ragazzo transgender. Se va nello spogliatoio delle ragazze deve necessariamente fare coming out con tutte le presenti. Non è semplice a quell’età. E magari pur di non farlo smette di fare sport oppure ha problemi ad andare in bagno». Probabilmente per molti è un problema relativo. «Se non lo si coglie, basta far bere due litri di acqua a chi pensa non lo sia e poi non mandarlo in bagno chiedendogli come si sente», osserva Camilla Vivian, autrice del libro “Mio Figlio in Rosa” che ha fatto seguito al blog omonimo dove per la prima volta in Italia veniva affrontato il tema dell’identità di genere nell’infanzia e che ha permesso poi a tante famiglie di entrare in contatto.

«In Italia va tutto bene fin quando sei nei binari. Io ora abito in Spagna e qui è tutto molto facile. Va in automatico: se vai a scuola e dici “Io sono Chiara”, tu sei Chiara. Punto. Se un bambino assegnato maschio alla nascita ti dice “Io sono una bambina” questo ti fa capire che è la cosa più naturale del mondo. Qua se vuoi fare la transizione medica, nel momento in cui puoi cominciare vai e nel giro di 2-3 mesi cominci senza nessun tipo di terapie psicologiche, test e tutte le cose che fanno in Italia. Il resto del mondo non si rende conto che siamo messi così. Al medioevo».

Facendo un parallelo con la Spagna quindi la musica è totalmente diversa. «In Catalogna – spiega Michela Mariotto di Genderlens, collettivo di genitori di persone trans o gender creative, nonché antropologa con una tesi di ricerca sulla varianza di genere nell’infanzia all’università catalana – dal 2017 è attivo un protocollo per le scuole, anche quelle private o cattoliche, dove c’è obbligo di cambiare il nome sul registro scolastico e rivolgersi alla piccola persona unicamente secondo il genere che con cui si identifica. La stessa cosa vale per l’utilizzo dei bagni, spogliatoi, divise eccetera. Una differenza enorme che ho potuto verificare è che la varianza di genere nell’infanzia in Italia è una questione privata, in qualche modo da contenere o nascondere. In Spagna è una questione sociale con supporto in ogni ambito, dai genitori alla scuola fino allo sport. Si fa tantissima formazione non solo sulla possibilità che ci siano dei bambini trans ma rispetto al fatto che l’essere maschio o femmina sono solo dei costrutti sociali».

Proprio la preparazione del personale in Italia costituisce un altro grosso problema. « Quello che sarebbe necessario è proprio la formazione di tutto il personale sui temi dell’identità di genere. Parliamo di uffici, scuole e anche i medici. Non sono così formati», aggiunge Muraca di Agedo.

Le poche figure mediche
Crescendo, la mancanza di figure formate comporta anche problemi di salute. «C’è pochissima formazione nelle figure specialistiche come endocrinologo o psicoterapeuta – dice Michele Formisano, presidente del CEST, centro salute trans e gender variant a cui si rivolgono decine di persone ogni mese – Non è che un laureato in materia può farlo al volo: qui c’è un mondo nel mondo. L’endocrinologo deve avere esperienza e specificità, ad esempio nelle persone che fanno una terapia ormonale sostitutiva, quindi i centri sono pochissimi e le liste d’attesa lunghissime con disparità sul territorio. Un problema che va avanti da anni. Dovrebbe esserci in ogni città non dico un centro multidisciplinare ma almeno una presa in carico nella propria Asl con una minima specialistica. E una chirurgia più diffusa».

Per sopperire alla mancanza di formazione qualcosa si sta muovendo. Nel luglio del 2021 è stata fondata la Sigis, società italiana genere identità e salute, che ha lo scopo di tutelare le persone con incongruenza di genere e formare dal punto di vista scientifico i professionisti. «La salute transgender – ammette Alessandra Fisher, tra la fondatrici di Sigis ed endocrinologa del Careggi, uno dei pochi centri dove si possono fare cure ormonali in Italia e a cui si rivolgono almeno 300 persone ogni anno – deve confrontarsi con la scarsa conoscenza da parte dei professionisti e un livello abbastanza elevato di transfobia sociale. Manca un po’ di percorso. Un altro grosso limite alla programmazione sanitaria è la mancanza di dati precisi a livello nazionale.

Per questo motivo il nostro centro con l’Università di Firenze, l’Istituto Superiore di Sanità Fondazione The Bridge e Onig sta raccogliendo dati e facendo uno studio che si chiama SpoT che ha lo scopo di definire, tramite un breve questionario online, il numero delle persone transgender adulte in Italia, informazione ad oggi non disponibile. Lo studio si concluderà nei prossimi mesi».

Il problema del Covid e la post-transizione
Sottolineando che «non tutte le persone transgender hanno bisogno di fare un intervento medico – precisa Jiska Ristori, psicoterapeuta del Careggi – perché non tutte provano disagio nei confronti del loro corpo», vi è da dire che nonostante l’importante nascita nel 2020 del portale infotrans.it creato dal governo italiano per dare una mappatura dei servizi, al momento in Italia a fare da testa di ponte tra i pochi centri multidisciplinari presenti e le persone più che le stesse Asl sono spesso le associazioni di volontari sparse sul territorio, come quelle già citate. Danno informazioni, fanno supporto psicologico, offrono prima assistenza, supporto genitoriale, gruppi di auto-mutuo-aiuto, incontri online e in presenza, consulenze lavorative e sono talvolta il punto di partenza per chi vuol fare la transizione.

«Siamo 23 volontari – spiega Ilaria Ruzza di Sat Pink, Servizio Accoglienza Trans/Transgender con sedi a Verona, Padova e Rovigo dove si può anche iniziare il percorso di transizione con enti convenzionati – e in 10 anni abbiamo accolto 1.484 persone di cui circa il 70 per cento negli ultimi 3 anni. Vengono da Veneto, Friuli e anche dal bresciano, modenese o mantovano. I numeri sono in costante aumento e col Covid c’è stato il boom, anche se quest’ultimo può essere stato un caso. La maggior parte sono giovani tra i 15 e i 22 anni e, ovviamente, se si rivolgono a noi non significa che necessariamente attueranno una transizione. Dobbiamo capire che non sono una minoranza ma sono tantissime le persone non binary in Italia. Parliamo di circa mezzo milione di persone».

Molti problemi si riscontrano anche per chi fa la transizione. «Una cosa che mi preme sottolineare – prosegue Formisano del Cest – è il problema per la salute. Se sei un uomo transgender che non ha fatto l’intervento di falloplastica, non puoi accedere a una visita ginecologica di prevenzione. O ad una visita della prostata se sei una donna transgender che non ha fatto la vaginoplastica. E se hai fatto la vaginoplastica, non c’è attenzione alla cura della neovagina. Praticamente la persona viene operata e abbandonata a sé stessa. Ci vorrebbe un percorso di screening di salute».

La burocrazia
Le problematiche quotidiane per una persona transgender in Italia non riguardano solo l’aspetto sanitario ma anche quello burocratico. «Non cerchiamo pietismo e non ne abbiamo bisogno – afferma Monica Romano, eletta in consiglio comunale a Milano alle ultime elezioni e che, per dare un segnale, sta cercando di istituire il nome Alias per i servizi erogati dal comune milanese – anche perché questo fa crescere i giovani con un disvalore. Ci vuole logica. Se una persona oggi compie 18 anni, per il nostro ordinamento può votare e chiedere un prestito in banca. Quindi la potremmo considerare capace di sapere ciò che desidera per sé e il suo corpo. In Italia se si vuol ricorrere alla chirurgia per ritoccare esteticamente il proprio corpo secondo il genere di nascita, nessun problema. Se ad esempio una persona di sesso genetico maschile fa gli stessi interventi di una donna, c’è da chiamare lo psichiatra e il giudice. È un problema anche cambiare il nome. Io per chiamarmi Monica Romano ho dovuto parlare con un pubblico ministero. In molti paesi con un atto amministrativo in comune, hai un cambio di nome. Siamo indietro. La società civile italiana è più avanti delle istituzioni e l’ho visto anche durante la campagna elettorale dove interessava discutere dei problemi non del fatto che fossi transgender. In Italia c’è una emergenza laicità. Lo abbiamo visto con la legge Zan o quella sul fine vita: ogni volta che tocchiamo temi eticamente sensibili per una certa visione cattolica non si riesce a procedere a livello legislativo».

La necessità di depatologizzare
L’ultima edizione dell’International Classification of Diseases dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2018 ha corretto la dicitura “disforia di genere” con “incongruenza di genere” spostandola dal capitolo dei disturbi a quello della salute sessuale. «Il problema – osserva Egon Botteghi di Rete Genitori Rainbow, associazione nazionale che si occupa

di supporto dei genitori LGBT con figlie e figli avuti da precedenti relazioni eterosessuali – è cambiare la legge che abbiamo, rimasta indietro. Non essendo più considerata malattia mentale non dovrebbe più esserci un iter diagnostico come accade, sia che una persona voglia fare una rettifica anagrafica o una operazione. Ci vorrebbe una nuova legge sull’iter di cambiamento di genere che lo rendesse più veloce, semplice e slegato da valutazioni mediche e del tribunale. Tante persone devono vivere con documenti non rettificati a causa delle nostre norme piene di ostacoli».

Ostacoli che colpiscono sia chi vorrebbe diventare genitore dopo la transizione sia chi lo era già prima. «Io, ad esempio, per lo Stato italiano sono al 100% un uomo, però sono anche la madre dei miei figli – continua Botteghi – e questo non viene cambiato. Quando devo andare a compilare un documento sono obbligato a scrivere sotto la dicitura “madre” e il personale non sa come comporarsi, tirando fuori mille problemi. Basterebbe lasciare la scritta “genitore”. Non occorre “1 e 2”. Aggiornare la modulistica e fare formazione non è fantascienza. Per quanto riguarda chi diventa genitore dopo la transizione, fino al 2015 (secondo alcune interpretazioni) i giudici richiedevano la sterilizzazione per fare il cambiamento di documenti: è chiaro che la concezione fosse che le persone trans non dovessero diventare genitori dopo la transizione. Anche oggi ci sono molti ostacoli, mentre in altre parti del mondo è normalità. Stiamo ad esempio traducendo una guida finanziata dal ministero della famiglia tedesco rivolta a genitori trans dove è spiegato praticamente tutto, sia per chi è già genitore sia per chi vuole diventarlo».

La “patologizzazione” della persona transgender in Italia avviene anche attraverso la terminologia e il modo in cui se ne parla. Lo ha riscontrato l’antropologa Mariotto di Genderlens nella sua tesi di ricerca in cui ha intervistato famiglie italiane e spagnole. «In Italia – spiega Mariotto – gli unici termini a disposizione dei familiari stessi per dare un senso all’esperienza dei propri figli e figlie era il linguaggio medico. I genitori stessi parlavano di disforia di genere, cosa che non accadeva in Spagna. Nelle interviste realizzate in Italia ho trovato la parola disforia di genere 21 volte, mentre in quelle fatte in Catalogna solo una, quando un padre spagnolo l’ha usata per dire che “la disforia non è quello che ha mio figlio”, cioè per prendere le distanze rispetto al termine. In Italia se ne parla spesso e male. Si interpellano i medici e le risposte sono sempre mediche».

Un atteggiamento che sembra conclamato. «In Italia le persone trans esistono tramite diagnosi – sentenzia Christian Leonardo Cristalli, presidente dell’Associazione Gruppo Trans costituita da persone transgender, non binarie e intersex – Anche la decisione dell’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) di dare gratuitamente le terapie ormonali, dopo apposita diagnosi in determinati centri, ci ha di fatto patologizzati. Io appartengo all’ultima generazione di persone trans che si è dovuta sterilizzare per avere documenti. Perché in Italia prima del 2015 siamo stati sterilizzati in massa dato che potevamo essere un pericolo per potenziale minore. Contrariamente a quanto accade in tanti Paesi europei, oggi siamo ancora chiamati ad andare in psicoterapia, spendere migliaia di euro e farci diagnosticare la nostra condizione. Anche Malta è più avanti di noi su questo. Qua in Italia ci sono persone che rinunciano ad andare in ospedale per evitare imbarazzi dovuti spesso alla mancanza di formazione. Altre che non vanno a votare perché le file sono divise per sesso e quindi si trovano in situazioni dove gli viene detto continuamente che hanno sbagliato fila. Basterebbe dividere per cognome. I problemi sono tanti, ci sono ma non si vogliono vedere. Abbiamo raccolto firme, inviato lettere, ma le istituzioni non fanno niente. In Italia il corpo è tabù, basta vedere che si cerca addirittura di rivedere la legge sull’aborto. Non vogliamo un miracolo, vorremmo solo far capire che esistiamo e abbiamo dei bisogni, come tutti. Foste al nostro posto, cosa fareste?»

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