Mai più, a nessunoIl dovere della memoria e i rischi dell’unicità dell’Olocausto

Il ricordo dell’orrore della Shoah, male estremo del Novecento, ha permesso di combattere in modo più profondo l’antisemitismo nel mondo. Ma proprio il suo carattere paradigmatico, ricorda Gabriele Nissim nel suo libro (Rizzoli), può alimentare l’idea che esista una gerarchia della barbarie, arrivando a sminuire le tragedie degli altri

AP Photo/Markus Schreiber, file

Il processo Eichmann permise a Israele di vivere il dramma della Shoah. Fu un momento di grande autoeducazione nazionale. Ma con il passare degli anni il discorso dell’unicità creò una barriera alla comprensione dei genocidi degli altri. La Shoah non venne letta come un genocidio estremo e un non precedente nella lunga catena che aveva attraversato la condizione umana, ma come una catastrofe che aveva colpito soltanto gli ebrei. Nuovamente si riproponeva la millenaria divisione tra gli ebrei e il resto dell’umanità.

Accadde così un fenomeno particolare. L’identificazione assoluta ed esclusiva con la Shoah creò una indifferenza nei confronti delle sofferenze degli altri, che non erano paragonabili a quelle degli ebrei.

Avraham Burg pose quindi un grande interrogativo:

Ma è davvero un mai più? Non è che quel «mai più» sta diventando un «mai più a noi»? E come la mettiamo con un «mai più agli altri»? Quanto a me, mi sento personalmente colpevole dei milioni di innocenti uccisi ovunque nel mondo, a causa della mia indifferenza. Indifferenza per la loro sorte che deriva, prima di tutto, dal meccanismo che si è innescato nella mia coscienza da quando sono nato: la Shoah è nostra, tutte le altre morti sono il male e l’empietà, ma non una Shoah. E visto che questa non è una Shoah, allora non è affar mio. E se non è affar mio, non ne sono responsabile. E se non ne sono responsabile, non sono tenuto ad alzare la voce, a gridare e protestare. Le vite di molte migliaia, fors’anche milioni di persone, avrebbero potuto essere salvate se lo Stato d’Israele e il popolo ebraico, me compreso, modesto individuo che sono, ci fossimo schierati in testa alla lotta internazionale contro l’odio e lo sterminio.

Poiché la Shoah era sempre altro dai differenti genocidi, da altre atrocità di massa, o da altre ingiustizie, non bisognava mai paragonarla, ma tenerla ben stretta in una cassaforte identitaria. Si trovava così nella identificazione esclusiva in quella sofferenza passata una giustificazione per essere indifferenti.

«Siamo incappati» osservò Burg «nella vecchia logica del “tutto il mondo è contro di noi” e ogni nostra valutazione sul mondo passa attraverso lo spettro del “Gut far yidn oder schlekht far yidn” (“È buono per gli ebrei o è male per gli ebrei”). Reagiamo insomma come se la Shoah riguardasse soltanto noi, e con ciò abbiamo perso la possibilità di trasformare questo evento in qualche cosa di atemporale, senza confini geografici: qualcosa che insomma appartiene a tutta l’umanità, riguarda ogni individuo. Che distingue e separa i buoni dagli empi di tutti i popoli e d’ogni nazione e non solo fra noi e il resto del mondo. Abbiamo monopolizzato la Shoah, l’abbiamo interiorizzata, senza lasciare avvicinare nessun altro. È nostra diciamo. Una appropriazione assoluta».

Burg ricordò quindi il grande scandalo morale nei confronti degli armeni. Israele, impegnata nel mondo per il ricordo della Shoah contro l’ondata di negazionisti che in vario modo ne mettevano in dubbio l’enormità, non aveva mai riconosciuto il genocidio armeno. Nel Paese ne parlavano solo pochi intellettuali come Frederick Chary e Yair Auron, che nella Open University di Ra’anana aveva creato un corso comparato sui genocidi. Aveva invece perso la sua grande battaglia il ministro dell’Educazione Yossi Sarid, quando aveva cercato di introdurre lo studio del genocidio armeno nella scuola secondaria.

Durante un viaggio in Turchia, quando ancora i rapporti tra i due Stati non si erano deteriorati, il ministro degli Esteri Shimon Peres dichiarò ai suoi interlocutori: «Respingiamo i tentativi di creare un parallelismo fra la Shoah e il dramma del popolo armeno. Non è mai accaduto nulla di simile alla Shoah. Gli armeni hanno vissuto una tragedia, ma non un genocidio».

In questo modo il governo israeliano avallò il negazionismo del governo turco, impegnato da anni a perseguitare con una legge apposita chi in Turchia ricorda il genocidio e a ricattare ogni Paese che abbia adottato risoluzioni che riconoscono lo sterminio del popolo armeno come una delle grandi tragedie del Novecento.

La stessa ambiguità sul piano delle relazioni internazionali si presentò nel corso della pulizia etnica in Bosnia e in Kosovo, quando il governo israeliano non prese le distanze dalla Serbia che era stata artefice di quei massacri. Dal canto suo Marek Edelman, come sopravvissuto dell’eroica lotta del ghetto di Varsavia, decise di recarsi a Sarajevo per portare la sua solidarietà, perché quanto era accaduto nel lungo assedio della capitale bosniaca gli aveva ricordato la tragedia ebraica.

C’erano in queste posizioni ufficiali, come era accaduto anche durante il regime dell’apartheid in Sudafrica (quando Israele era tiepida nella condanna), scelte contingenti di realpolitik per l’isolamento del Paese, ma la domanda che si pone Burg è se la rivendicazione del primato della sofferenza, con un discorso che ha separato la Shoah dagli altri genocidi, non abbia ritardato la consapevolezza morale di questi nuovi crimini contro l’umanità.

La grande occasione mancata, che avrebbe forse potuto imprimere una diversa direzione alla riflessione storica, accadde a Tel Aviv nell’aprile del 1982, quando il professor Israel Charny organizzò un grande convegno, la International Conference on the Holocaust and Genocide, il cui scopo era quello di collegare l’Olocausto ai genocidi precedenti e attuali come problema universale della storia umana, per riconciliare le vittime specificatamente ebree con l’universalità di tutte le vittime. Doveva presiedere la conferenza Elie Wiesel, con la partecipazione delle più grandi istituzioni israeliane, da Yad Vashem all’università di Tel Aviv. Si erano iscritte seicento personalità di fama mondiale, da Yehuda Bauer al presidente del consiglio di Yad Vashem Yitzhak Arad, a Gideon Hausner, il pubblico ministero del processo Eichmann.

Tra gli argomenti della conferenza c’era ovviamente il genocidio armeno, ma la delicatezza dei rapporti con la Turchia si trasformò in un espediente politico per incrinare il paradigma culturale del convegno e per svuotare il carattere ufficiale dell’incontro. Il ministero degli Esteri, con l’ausilio delle ambasciate, organizzò una vera e propria task force per convincere Elie Wiesel e i più grandi intellettuali a desistere dalla partecipazione, mentre in Israele si chiese a Yad Vashem, l’istituzione della memoria più prestigiosa, di ritirare la sua adesione.

In un documento recentemente pubblicato si affermava che il primo obbiettivo era quello di «neutralizzare Yad Vashem» e di impedire che «un organismo ufficiale avallasse la partecipazione degli armeni […] perché l’inclusione di altri popoli nella stessa linea dell’Olocausto avrebbe posto Yad Vashem in una posizione controversa nel mondo e nei confronti dell’opinione pubblica internazionale». Ai partecipanti fu spiegato che con questa conferenza Israele sarebbe stata minacciata e che le vite degli ebrei in Turchia sarebbero state in pericolo.

Una grande «invenzione», racconta nel suo ultimo libro Israel Charny, che servì però a fare desistere Wiesel, Bauer, Hausner, Arad e le università israeliane dalla partecipazione. Così la conferenza, che si svolse dal 20 al 24 giugno, da grande avvenimento pubblico e nazionale, si ridusse a un convegno di privati.

«L’abbiamo tenuta lo stesso con trecento persone» ricorda Charny. «Fu un’occasione molto commovente. L’atmosfera era elettrica: i partecipanti erano consapevoli della nostra lotta contro il governo e si sono identificati con noi, con il nostro coraggio e la nostra forza nel resistere contro i tentativi di cancellare la conferenza».

Come uscire da questa logica? Avraham Burg ci provò, facendo proposte alquanto ardite.

In un discorso che tenne alla Knesset nel gennaio del 2004 chiese che la battaglia contro l’antisemitismo non fosse disgiunta da una battaglia contro i nuovi odi che si manifestavano nel mondo. Cominciò col dire che l’antisemitismo non era più un problema dei soli ebrei, ma la cartina di tornasole della salute morale della società. Bisognava riflettere sul fatto che una società in cui si annida l’odio antisemita o di qualsiasi tipo è una società malata. Di questo prima di tutto occorreva preoccuparsi.

Poi aggiunse che bisognava allora trarre le dovute conseguenze: «Lo Stato d’Israele non deve creare una struttura ebraica per lottare contro l’antisemitismo. Il parlamento e lo Stato di Israele devono tendere la mano al mondo e dire: costruiamo insieme la coalizione mondiale contro la xenofobia, contro ogni odio, contro l’odio dell’uomo in generale, compreso quello contro l’uomo ebreo. Non dobbiamo restare sempre ripiegati in noi stessi. Non dobbiamo continuare a ripetere: gli odi non ci interessano, non ci importa quello che succede agli altri, non ci importa quello che viene fatto alle altre minoranze, solo l’odio contro di noi è quello vero, tutti gli altri non sono odi veri».

Quando Burg pronunciò queste parole creò un grande gelo in sala e pochi osarono stringergli la mano. Certamente faceva qualche grave errore di interpretazione, perché l’antisemitismo spesso si è manifestato in movimenti che conducevano una battaglia di emancipazione e di liberazione, ma egli voleva sottolineare che per liberarsi dallo stato di vittime permanenti gli israeliani dovevano sapere collegare le loro persecuzioni a quelle degli altri, per non farne un mondo a parte. Nella sua ingenuità (poiché comunque la lotta all’antisemitismo avrà sempre una specificità) aveva colto una questione importante.

da “Auschwitz non finisce mai. La memoria della Shoah e i nuovi genocidi”, di Gabriele Nissim, Rizzoli editore, pagine 272, euro 19

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