Quasi 200 pagine che si leggono tutte d’un fiato con commozione e rinnovato orrore per quanto s’è perpetrato nei lager nazisti. Ma anche con vivo timore che quanto allora accaduto possa ripetersi ancora, perché «il buio dei campi non è archiviato una volta per sempre. L’odio che ha nutrito quei luoghi è sempre in agguato, può sempre riemergere. Occorre vigilare anzitutto con la memoria, con il racconto di ciò che è stato».
Ed è appunto ciò che ha fatto Lidia Maksymowicz, sopravvissuta agli esperimenti eugenetici di Josef Mengele, scrivendo di sé e del buio da cui è riemersa 77 anni fa nel libro “La bambina che non sapeva odiare. La mia testimonianza”.
Edita per i tipi Solferino e uscita il 20 gennaio scorso, quest’opera densa di significati è il frutto di lunghi colloqui intercorsi tra Lidia e Paolo Rodari, vaticanista de La Repubblica, che ne è appunto il coautore. Nello scriverla il giornalista milanese, da sempre sensibile tanto alla spiritualità quanto ai drammi umani delle persone, è stato ispirato da uno specifico avvenimento. È lui stesso a raccontarlo nelle pagine finali di ringraziamento: «Questo libro è nato il 26 maggio del 2021 quando, a sorpresa, al termine dell’Udienza generale del mercoledì, Papa Francesco incontrando Lidia Maksymowicz ha voluto baciarle il numero marchiatole sul braccio dai nazisti quando nel 1943 arrivò con la sua giovane mamma nel campo di Birkenau».
Quel numero, il 70072, che proprio il pontefice ha voluto espressamente menzionare, spiegando così le motivazioni sottese al bacio nella prefazione al volume: «Il mio è stato un semplice gesto di riconciliazione, affinché la memoria del passato si mantenga viva e possiamo imparare dalle pagine nere della storia in modo da non ripeterla, da non fare mai più gli stessi errori. Continuiamo, dunque, a sforzarci, instancabilmente, a coltivare la giustizia, aumentare la concordia e sostenere l’integrazione, essere strumenti di pace e costruttori di un mondo migliore».
Un tale gesto è rimasto indelebilmente impresso nel cuore e nella mente di Lidia Maksymowicz, che non senza emozione dice a Linkiesta: «Quando Francesco mi ha baciato il tatuaggio, che mi hanno fatto quando nel dicembre del 1943 sono arrivato a Birkenau, mi sono sentita compresa. Ho pensato che quel bacio fosse rivolto anche a tutti i bambini che come me sono entrati nei campi di sterminio ma non ne sono usciti vivi. Non voglio dire che sia stato un risarcimento, perché un risarcimento è impossibile: è però stato un gesto inaspettato che ha fatto per tutti noi e come tale unico. Eravamo in tanti nella baracca dei bambini, vessati dal dottor Mengele. A tutti loro va sempre il mio pensiero».
Ma le parole bergogliane non sono le uniche a impreziosire il volume, che si apre infatti con le note introduttive di due altri superstiti dello sterminio nazista: Liliana Segre e Sami Modiano. Se per la senatrice a vita «la storia di Lidia è una scheggia dell’universo concentrazionario», di cui è necessario parlare ancora «per dovere: il dovere della memoria. Ora e sempre, come un mantra del terzo millennio», quello di Maksymowicz è, secondo l’altro storico testimone della Shoah, uno scritto che «deve rimanere come esempio di vita: forza, coraggio, perseveranza nel bene, amore verso il prossimo e mai più guerre!».
Una storia che lo stesso Sami Modiano paragona alla sua personale e che è così drammaticamente sintetizzata: «la solitudine e l’esperienza terribile in quei campi di sterminio, strappata dalle mani della sua mamma a soli tre anni, l’incertezza del domani!».
Quella madre, Anna, che ha aderito fin dagli inizi alla Resistenza bielorussa – e i boschi della terra natia sono l’ultima luce che Lidia ricordi prima del buio del lager – e con la quale, come già detto, l’autrice del libro entra a fine ’43 nel campo di concentramento di Birkenau, per poi perderne le tracce. L’allora bambina di tre anni resterà in quell’inferno tredici mesi, nel corso dei quali è una delle piccole cavie del Todesengel (Angelo della morte, ndt) Josef Mengele. Ne sarebbe uscita nel gennaio 1945, a seguito della liberazione operata dalle truppe sovietiche, mano nella mano di una donna polacca, senza figli, che ha deciso di adottarla. Lidia cresce con lei senza però dimenticare la sua vera madre e senza smettere di cercarla, credendola viva. E in una storia che sa di miracolo la ritroverà.
Del campo di sterminio Lidia ricorda oggi soprattutto il silenzio, il cui velo, una volta ritrovata la voce, ha deciso dopo anni di squarciare attraverso la testimonianza. Per gridare anche lei come Liliana Segre e Sami Modiano: Mai più. «Prima che i campi aprissero – scrive la donna – quale fu l’errore? Dare cittadinanza a parole di una ostilità fuori da ogni logica, ma d’un tratto ritenute legittime. Così è ancora oggi. Torniamo ad ammettere parole che sanno di odio, di divisione, di chiusura. Quando le sento in bocca ai politici, mi manca il fiato. Qui, nella mia Europa, a casa mia, ancora quelle terribili parole. È esattamente adesso, in momenti come questi, che può ridiscendere il buio».
La parola buio ritorna in maniera martellante, ben 26 volte, nel racconto autobiografico di Lidia. Cui se ne contrappone antiteticamente un’altra, luce. Luce, di cui Lidia è portatrice nell’amore. «Ho deciso – spiega in chiusura – di non coltivare l’odio o la vendetta. Ma di restare me stessa, una donna che vuole soltanto amare. Sono lontani quei giorni di quasi ottant’anni fa. Quei giorni dell’autunno del 1943, il trasporto a Birkenau sui carri bestiame e la prigionia. Non ho mai imparato a odiare e ancora oggi non lo so fare. Chi odia soffre molto più di chi è odiato. Perché spesso chi è odiato non sa di esserlo. Chi odia invece sa che sta odiando e l’odio non può portare che alla morte, alla distruzione personale e collettiva. L’odio è un sentimento che distrugge e basta». Da qui la missione di cui Lidia si sente investita: «A me spetta invece amare e testimoniare la luce che, nonostante il buio, ci avvolge e non ci abbandona».
Non ha dubbi al riguardo Paolo Rodari che, ricordando quanto siano veritiere le parole di «Liliana Segre, per la quale coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo», dichiara a Linkiesta: «La memoria è necessaria perché la follia della Shoah non si ripeta. Scrivere questo libro è stato contribuire a questa memoria e per questo ne è valsa la pena. Quando arriverà il giorno che i testimoni non ci saranno più resteranno le loro parole. Il libro che ho scritto con Lidia è stato supervisionato dalla casa editrice di Auschwitz e sarà venduto anche lì. Per me questo è un grande riconoscimento perché dice dell’autenticità di quanto Lidia ha vissuto».