Nel giorno in cui l’intera comunità internazionale inorridiva dinanzi alle immagini di Bucha e gridava la sua indignazione in ogni paese del mondo, con le uniche eccezioni di una manciata di dittatori in Asia e in Medio Oriente, e di una manciata di ospiti da talk show in Italia, Matteo Salvini rompeva il suo lungo silenzio post-figuraccia polacca (ci torneremo) soltanto, pensate un po’, per complimentarsi con Viktor Orbán. L’entusiasmo era tale da necessitare lo spazio di due tweet. Questo il testo: «Bravo Viktor! Da solo contro tutti, attaccato dai sinistri fanatici del pensiero unico, minacciato da chi vorrebbe cancellare le radici giudaico-cristiane dell’Europa, denigrato da chi vorrebbe sradicare i valori legati a famiglia, sicurezza, merito, sviluppo, solidarietà, sovranità e libertà, hai vinto anche stavolta grazie a quello che manca agli altri: l’amore e il consenso della gente. Forza Viktor, onore al libero Popolo ungherese».
In altre parole, dopo essere giustamente andato a nascondersi per il modo in cui un sindaco polacco lo aveva sbeffeggiato in diretta, donandogli una di quelle belle magliette di Putin che il leader leghista amava sfoggiare fino a pochi mesi fa, Salvini ha pensato bene di uscire dal suo inconsueto riserbo per complimentarsi con il principale alleato di Putin in Europa, ripetendo tutte le principali parole d’ordine della comune propaganda fascio-populista. Parole d’ordine del resto già rilanciate dal festeggiato nel suo primo discorso, in cui ha chiarito di aver vinto «contro il globalismo, contro Soros, contro i media mainstream europei e anche contro il presidente ucraino». Più chiaro di così.
Giorgia Meloni almeno ha avuto il buon gusto, prima di complimentarsi anche lei con Orbán, di esprimere se non altro un moto di generico orrore per le atrocità di Bucha. Ed è stata l’unica tra i leader del centrodestra italiano a farlo. Quindi è passata all’elogio del teorico (e pratico) della «democrazia illiberale» ungherese, con le seguenti parole: «Per anni lo hanno attaccato per le sue politiche a difesa dei confini e della famiglia, ma nessuno lo ha ringraziato nelle ultime settimane per aver accolto centinaia di migliaia di profughi ucraini. L’Ungheria è membro della Nato e dell’Ue e sta rispettando gli altri impegni assunti. È interesse dell’Europa riappassionare gli ungheresi alla causa comune e chiudere spazi alle ingerenze di Russia e Cina, ma per farlo Bruxelles deve innanzi tutto rispettare la loro volontà. Che oggi, ancora una volta, ha parlato chiaro».
Tralascio le molte ombre sulla chiarezza con cui avrebbe la possibilità di parlare il popolo ungherese, che libero lo è sempre meno (mentre chiarissimo, ripetiamolo, è stato il vincitore). Sarebbe sufficiente sapere se Salvini e Meloni intendono fare in Italia quello che Orbán fa in Ungheria, se condividono la sua concezione della democrazia e dei diritti delle minoranze. Dicano fino in fondo quello che pensano, come hanno fatto a suo tempo su Putin, così da risparmiarci domani anche la fatica di andare a ricercare una dichiarazione qui e una lì.
Nel frattempo, mi pare degno di nota il fatto che il famigerato asse di Visegrád, l’accordo tra i Paesi sovranisti dell’Europa dell’Est impegnati nell’imprimere una torsione autoritaria e illiberale alle loro democrazie, è andato in pezzi proprio sulla guerra in Ucraina. I polacchi sono infatti ben consapevoli, per ragioni storiche e geografiche, che all’indomani di una totale disfatta ucraina il primo posto nella lista dei potenziali bersagli dell’espansionismo russo toccherebbe a loro, ragion per cui non hanno più voluto avere a che fare con Orbán e il suo putinismo spudorato. A differenza dei sovranisti italiani, evidentemente. Ai quali bisogna evidentemente aggiungere Giuseppe Conte, che in un tweet di cordoglio per la strage di Bucha è riuscito a non pronunciare né la parola Putin né la parola Russia.
Testualmente: «L’orrore delle immagini che giungono da #Bucha ricorda i tempi più cupi della nostra storia. Non dobbiamo rassegnarci all’ineluttabilità della guerra, non possiamo accettare questa carneficina. Non dobbiamo tacere di fronte a queste violenze». Insuperabile, e squisitamente contiano, quel «non dobbiamo tacere», dopo il quale ci si aspetterebbe dunque che Conte parlasse, facendo nomi e cognomi dei responsabili, e invece tace, mette il punto e la chiude lì, come in quelle vecchie gag di Adriano Celentano (manca solo la spalla che dica: «E quindi?». E lui a replicare: «Non dobbiamo tacere, punto. La frase finisce lì»).
Peggio ancora l’intervista di ieri a Repubblica in cui il leader grillino ha detto: «Con la guerra non si gioca e l’Europa deve avere una posizione chiara». Bene, giusto, e quindi? E quindi Conte proseguiva così: «Una cosa è offrire il necessario sostegno all’Ucraina, altra cosa è pensare di procrastinare il conflitto nella speranza di piegare la Russia».
Dunque, al netto del solito gioco delle tre carte sul sostegno all’Ucraina, dichiarato nella prima correlativa e negato nella seconda, è l’Europa, secondo Conte, che non deve pensare di «procrastinare il conflitto», mica la Russia. E cosa significa, concretamente, non procrastinare il conflitto, da parte dell’Europa, se non premere sugli ucraini perché si arrendano?
In breve, il famigerato asse di Visegrád, defunto in Europa, è rimasto in piedi in Italia. Ma almeno qui è più forte che mai.