Decarbonizzare l’AustraliaPerché la vittoria di Anthony Albanese è una buona notizia per l’ambiente

Negazionismo climatico, mix energetico obsoleto e (folli) finanziamenti alle fonti fossili: il laburista di origini italiane ha il compito di smaltire la pesante eredità di un’isola di 769 milioni di ettari che, finora, si è rifiutata di giocare la partita della lotta al riscaldamento globale

AP Photo/LaPresse

L’Australia sta combattendo una guerra contro il cambiamento climatico. E la sta perdendo. Anni di negazionismo sono costati all’ormai ex primo ministro Scott Morrison la sconfitta contro lo sfidante laburista, Anthony Albanese. Il vincitore, tra le altre cose, porterà avanti un programma ambivalente sull’ambiente: puntella al rialzo gli obiettivi di riduzione delle emissioni, ma non si opporrà all’apertura di nuove miniere. Un colpo al cerchio, uno alla botte. 

Tuttavia, non è abbastanza per il secondo esportatore mondiale di carbone, nonché uno dei Paesi che inquina di più in rapporto alla sua popolazione. La necessità di trovare alleati per governare, tra i Verdi e gli indipendenti, potrebbe spingere Albanese verso un’agenda più ecologista: un punto di svolta necessario non solo per lo Stato dell’Oceania, ma per il mondo intero. 

L’Australia è l’isola più grande del pianeta. Ed è anche la sesta Nazione più estesa, dopo Russia, Canada, Cina, Stati Uniti d’America e Brasile. È responsabile dell’1% delle emissioni globali, a fronte di appena 25,6 milioni di abitanti (solo il nord Italia ne conta più di 27 milioni): lo 0,3% della popolazione della Terra. Se si include la produzione di combustibili fossili, da cui dipende anche a livello domestico, l’impatto sale al 3,6%. 

Ha un mix energetico che definire obsoleto sarebbe un complimento: in base ai dati ufficiali, il carbone è la sua fonte primaria di elettricità (75%), seguito poi dal gas (16%). Standard simili, se adottati dal resto dell’umanità, costerebbero un innalzamento della temperatura di 3 gradi, vale a dire il doppio della soglia di 1,5 gradi di riscaldamento globale, considerata il minimo sindacale per non estinguerci. 

E come se non bastasse, l’Australia – così come tutta l’Oceania con i suoi piccoli Stati insulari – è funestata dagli eventi climatici estremi. Una «trincea climatica, un laboratorio di come l’emergenza può mettere in ginocchio anche un Paese avanzato e moderno», l’ha definita in un thread su Twitter il giornalista Ferdinando Cotugno, che su Domani ricorda che quelle australiane «sono state le prime elezioni di una democrazia occidentale nelle quali è il clima è stato l’argomento centrale su cui valutare la credibilità dei leader e dei partiti».

L’opinione pubblica se n’è accorta: a marzo, un sondaggio della Australian conservation foundation ha fotografato come il supporto a misure urgenti per mitigare gli effetti della crisi climatica fosse trasversale tra i partiti. Le elezioni lo hanno dimostrato con l’arretramento dei liberali di Morrison, che alla Cop26 ha partecipato solo per contribuire a sabotare accordi più ambiziosi. L’ex primo ministro, nel 2017, ha magnificato in Parlamento le doti del carbone con in mano una roccia del minerale. Immagini che non invecchieranno benissimo. Come se i dinosauri avessero lodato gli asteroidi

Durante la campagna elettorale, Anthony Albanese si è impegnato a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 e a tagliare del 43% – da qui al 2030 – le emissioni di gas serra. È un passo avanti, anche se relativo, perché a Glasgow l’esecutivo precedente si era rifiutato di rivedere i piani di abbattere del 26% quella quota. Canberra era la maglia nera dell’Occidente. I protagonisti del voto di pochi giorni fa, cioè i Verdi e i cosiddetti indipendenti “Teal independents” (“teal” significa “turchese”), chiedono di fare di più dal punto di vista ambientale: rispettivamente, una contrazione del 60 e del 75% delle emissioni. E i Greens potrebbero rivelarsi decisivi. 

I laburisti hanno infatti bisogno del loro sostegno per formare un governo di minoranza, dato che avranno un seggio in meno della soglia prevista dalla legge (di 73). Il portavoce degli ecologisti, Adam Bandt, ha chiarito qual è la condizione perché si siedano a trattare: vietare nuovi impianti e industrie connessi a gas e carbone, da cui smarcarsi per la produzione di energia. Il programma di Albanese metterebbe a malapena l’Australia al passo con Canada e Giappone, ma non recupererebbe il ritardo su Unione europea, Usa e Regno Unito, i principali alleati di un’isola che si sente minacciata dall’espansionismo cinese. 

L’eredità del passato non sarà facile da smaltire. Nel 2021 l’Australia ha speso 8,2 miliardi di dollari in sussidi ad aziende legate ai combustibili fossili e altri 39 miliardi – avete letto bene, trentanove miliardi – per finanziare impianti di estrazione di gas e petrolio, centrali termiche, infrastrutture di trasporto e di stoccaggio. Come fa notare il New York Times, lo Stato ha investito più soldi per queste voci – tra le cause del riscaldamento globale – che nei fondi per aiutare i cittadini che ne stanno pagando le conseguenze. La differenza negli ordini di grandezza varia dalle 10 alle 50 volte, a seconda del confronto con l’Emergency response fund o con la National recovery and resilience agency

Eppure, le vittime degli effetti della crisi climatica sono sempre di più, e con il loro voto hanno condizionato le elezioni legislative vinte dal centrosinistra. Negli ultimi tre anni, a causa della spirale di incendi e delle alluvioni sempre più frequenti, sono morte circa 500 persone e la flora e la fauna hanno subìto danni ritenuti irreparabili (con conseguenze gravissime sulla biodiversità). La situazione è un monito, tragico, a chi pensa al climate change come a uno scenario apocalittico remoto. Entro il 2030, per esempio, le compagnie negheranno l’assicurazione a una casa su 25 in Australia, ma nelle regioni più esposte agli eventi climatici estremi la percentuale arriva al 40%, perché si ritiene che per allora saranno distrutte o inabitabili. In generale, le tariffe risultano quadruplicate rispetto al 2004. 

«Abbiamo un’opportunità per chiudere le guerre del clima in Australia», ha detto Albanese la sera della vittoria, «gli imprenditori sanno che una buona azione climatica sarà positiva per l’impiego e per la nostra economia. Voglio unirmi agli sforzi globali». Qualche giorno più avanti, dopo l’incontro con i capi di Stato del Quad, ha aggiunto che il suo governo «intraprenderà un’azione ambiziosa sul cambiamento climatico, riconoscendo che la crisi climatica è la principale sfida economica e di sicurezza per i Paesi insulari del Pacifico».

Molti analisti concordano nel ritenere il risultato una possibile «svolta storica» per il Paese, e secondo Deutsche Welle è anche l’ultima chance. Non sarà semplice. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il prezzo del carbone è cresciuto. Potrebbe valere 70 miliardi di profitti extra per Canberra e alla sua filiera sono appesi tra i 100 e i 300 mila posti di lavoro. 

Da noi, i giornali hanno parlato di Albanese quasi solo per le origini italiane e per la vicenda strappalacrime di un padre di Barletta conosciuto solo in età adulta, poco prima della sua scomparsa. Ma ci sono altre ragioni, meno provinciali e più concrete, per tenere d’occhio la sfida di Albanese, più centrista che barricadero. Quando diciamo che «ci riguarda da vicino», per una volta non è retorica. Va decarbonizzata un’isola di 7.692.000 chilometri quadrati, alimentata a carbone, che è anche un continente.