Per ora è quasi gol La sottile differenza tra precarietà e flessibilità

L’avvio del programma Garanzia occupabilità dei lavoratori è un passo avanti. Ma in questo ambito restano da fare molte altre cose per sfruttare al meglio l’occasione del Pnrr, spiega l’amministratore delegato di Synergie Italia

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Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2022 in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.

Per l’anno che verrà, negli scenari per il lavoro in Italia, mi permetto di formulare alcuni desideri, che come operatore del settore, occupandomi di fare incontrare la domanda con l’offerta di lavoro – dentro il mercato del lavoro – vorrei vedere realizzati nel nostro Paese.

Il Pnrr porta circa cinque miliardi, in quattro anni, alle politiche attive per il lavoro, cioè al vecchissimo progetto che nasce nell’Europa socialdemocratica del Nord per spendere le risorse non solo per assistere materialmente il lavoratore in difficoltà, ma anche per accompagnarlo a un nuovo e, possibilmente, più soddisfacente lavoro. Questo elementare concetto, che è sia di equità sia di migliore utilizzo delle risorse e del buon senso, si stava facendo strada in Italia, dopo tanti anni di predicazione di Marco Biagi a Tiziano Treu, di Pietro Ichino e Tommaso Nannicini, cioè del miglior pensiero giuslavoristico, fino a essere totalmente ribaltato dallo sciagurato governo Di Maio-Salvini del 2018 che, con il reddito di cittadinanza, ha cancellato vent’anni di buone pratiche in tutta Europa.

Probabilmente è stata solo ignoranza, forse i nostri eroi semplicemente ignoravano l’abc delle politiche del lavoro, fatto sta che è stata posta fine anche alla sperimentazione sull’assegno di ricollocazione. Adesso l’Europa ci chiama a un grande sforzo: con il decreto ministeriale di fine anno del ministro Andrea Orlando, si rimette in moto la macchina, attivando il Gol, cioè la nuova formulazione di politica attiva che il ministero e l’Anpal hanno partorito.

Pur con mille contraddizioni, è un passo in avanti, si riconosce persino il ruolo delle agenzie private e si individuano le aree di disoccupazione che possono essere investite dal provvedimento. Si integra la formazione con l’assistenza al lavoratore per accompagnarlo al ricollocamento, si creano le basi per una collaborazione di tutti i soggetti che possono svolgere un ruolo attivo per inalzare finalmente il tasso di occupabilità in Italia.

Questo piccolo passo avanti deve essere costato parecchio a un ministro come Orlando, che mi pare più interessato a confermare il suo ruolo di sinistra nel grigiore dell’attuale Pd che non a risolvere i problemi di un mercato del lavoro ancora così arretrato come quello italiano. Ma mi preoccupa anche quanto ancora resta da fare (perché se non si riesce a spendere saltano i finanziamenti europei per l’anno successivo): attendiamo lumi operativi su come procedere, visto che non è chiaro come questo convoglio possa mettersi in moto nella perdurante inefficienza di quasi tutti i centri per l’impiego italiani.

Tra i tanti interrogativi aperti voglio solo ricordare la domanda inquietante che tutti ci poniamo sulle Regioni del Sud (i soggetti operativi di Gol): come faranno a far funzionare il meccanismo, visto che non riescono a spendere miliardi di euro delle passate gestioni e mancano di strutture, uomini ed esperienze positive? Riusciremo a vedere l’esercizio dei poteri sostitutivi del governo centrale dare finalmente una lezione a cotanta colpevole inefficienza?

Ammortizzatori sociali: non si capisce di che cosa stiamo parlando, abbiamo passato l’autunno a dire che si trattava di una riforma da fare subito, ma le piccole imprese non vogliono pagare e dunque non si capisce perché le loro crisi debbano pesare sul bilancio delle altre aziende, che già finanziano gli ammortizzatori. Inoltre, la vera riforma era già stata fatta con il Jobs Act, che aveva ampliato la platea. Il resto della partita va ricondotto alle politiche attive, vedi il punto precedente.

Mi piacerebbe davvero che si smettesse di parlare a vanvera di precarietà, un bandiera del segretario della Cgil Maurizio Landini e compagni che sta diventando offensiva per tutte le imprese serie (posto che siamo d’accordo con lui nel criticare le forme di sfruttamento di organizzazioni e cooperative spurie che però rappresentano un mondo para criminale e non il normale mondo datoriale): i contratti a termine rappresentano il 15 per cento dei contratti di lavoro, tutti gli altri sono a tempo indeterminato. Siamo in piena media europea, né più né meno. È evidente, del resto, che debbano esistere i contratti a termine, che hanno una logica, sia per un prolungamento legittimo del periodo di prova sia per ragioni tecniche di utilizzo. Chi di noi non ha iniziato con contratti a termine? Perché un giovane non dovrebbe passare attraverso alcuni contratti a termine, prima di essere assunto, come avviene nell’85 per cento dei casi, a tempo indeterminato?

Un problema vero, invece, è la cosiddetta trappola della precarietà, quando a 35 anni si continua con contratti a termine e a singhiozzo nei call center o nei ristoranti. Ma qui il discorso ritorna al primo punto, sulle politiche attive, sulla formazione e sulla difficoltà di fare incontrare la domanda con l’offerta. La vera strozzatura del mercato del lavoro italiano. Allora, per favore, distinguiamo tra flessibilità e precarietà, e poi tra la precarietà provvisoria del giovane che entra sul mercato del lavoro e la precarietà stru!urale della cooperativa padronale di facchinaggio sottopagato, tra la falsa partita Iva e il sano contratto della somministrazione, che tratta con gli stessi diritti il dipendente e il somministrato.

Un altro punto che aiuterebbe a risolvere parte dei nostri problemi è quello di un utilizzo meno sprecone della formazione: in Italia abbiamo ancora situazioni insostenibili, retaggio della prima Repubblica, quando sindacati e organizzazioni cattoliche vivevano con gli enti di formazione che, attraverso i corsi per pettinatrici, facevano campare centinaia di sedicenti formatori. Pensate che in una regione del Nord come il Piemonte è ancora in vigore, speriamo per poco, una legge che finanzia la formazione regionale solo per le società senza fini di lucro (cioè parrocchie e sindacati).

Vorrei che anche per le società di formazione funzionasse un sistema di valutazione, sui risultati di occupabilità che vengono raggiunti. Noi del sistema delle agenzie private del lavoro abbiamo inventato un buon misuratore di efficienza con l’ente bilaterale per la formazione, dove i finanziamenti vengono erogati solo sulla base di una percentuale di placement che dimostri che la formazione è servita a qualcosa e che non sono soldi buttati. Come ha detto il rimpianto ministro Maurizio Sacconi, che finisca finalmente la «festa dei formatori».

Va riformato il sistema degli incentivi, da un lato riducendo quelli eccessivi (ad esempio per le assunzioni degli under 36 mi pare esagerato lo sconto alle imprese di 36 mesi di contributi), dall’altro premendo di più sugli incentivi per chi ha perso il lavoro (mi sembra troppo poco, ad esempio, l’incentivo di poche centinaia di euro all’anno per chi assume dalla Naspi).

Ma soprattutto va riformato il cuneo fiscale per far costare di meno il lavoro e lasciare più soldi in tasca al lavoratore, anche a quelli cosiddetti “ricchi” da cinquantamila euro lordi (che poi così ricchi non sono). Siamo ancora in ritardo nel rapporto scuola-lavoro e sugli Its e la nostra economia sta soffrendo la mancanza di maestranze tecniche. La differenza con la Germania è immensa: il rapporto degli studenti degli Its è quasi di 1 a 100, tra noi e i tedeschi.

Impegniamoci a finanziare, con fondi privati e pubblici (ancora il PNRR), una grande operazione di ristrutturazione della scuola tecnica sia superiore sia universitaria. Rappresenterebbe il migliore investimento per il futuro. Sulla previdenza il sistema politico deve essere più serio e meno populista: tanto hai contribuito, tanto ricevi. Non puoi pretendere di andare in pensione prima e senza riduzione di importo pensionistico. Bisogna essere inflessibili, altrimenti non riusciremo mai a risanare i conti e spendere di più sulla sanità;

Reddito di cittadinanza: qui Mario Draghi ha sbagliato perché in verità la condizionalità non esiste: il beneficiario che non vuole andare a lavorare sarà bravissimo a evitare che l’azienda interessata possa procedere a una proposta di assunzione e lui continuerà tranquillamente a imbrogliare lo Stato incassando l’assegno (magari per continuare a lavorare in nero).

Salario minimo garantito: sarebbe una buona azione, fissando un minimo dignitoso che non andrebbe affatto a indebolire la contrattazione sindacale, perché partirebbe da quel minimo per premiare merito e produttività. Poi, una volta fatto ciò, si potrebbe ricominciare a parlare, come in Germania, di mini Jobs di carattere sociale (cioè meglio farti lavorare con poco che lasciarti a casa a oziare).

Discutiamone senza criminalizzazioni: l’Italia ragionevole e avanzata se lo merita, anche se purtroppo la politica non sembra ascoltare.

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