Oggi, lunedì 9 maggio, ad Abidjan (Costa d’Avorio) si apre la Cop15 sulla siccità e la desertificazione. Le delegazioni dei 197 Paesi firmatari – tra cui l’Italia – della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione (Unccd) dialogheranno fino al 20 maggio alla ricerca di soluzioni per gestire in maniera sostenibile il suolo, al grido di “Land. Life. Legacy: From scarcity to prosperity”.
Al netto di questo ambizioso claim, non c’è da essere ottimisti. La Cop15 arriva, non a caso, a pochi giorni dalla pubblicazione di un rapporto che ha preso forma dopo anni di ricerche, ossia il Global Land Outlook dell’Onu sullo sfruttamento del suolo. Suolo che, a causa delle attività antropiche e degli effetti del cambiamento climatico, non è mai stato così in affanno. Secondo il report, gli esseri umani hanno danneggiato il 40% della superficie terrestre, e il 70% delle terre coltivabili del nostro pianeta è in mano all’1% delle aziende agricole.
Global food systems are responsible for 80% of the world’s deforestation, 70% of freshwater use, and contribute to 40% of the planet’s degraded land, according to the latest #GlobalLandOutlook via @mongabayhttps://t.co/bCQ4XVB2KR
— UN Convention to Combat Desertification (@UNCCD) May 3, 2022
Un momento delicato
Le conseguenze della desertificazione – un termine che ormai si riferisce al degrado del suolo in aree aride, semiaride e subumide, e non più all’espansione dei deserti esistenti – sono molteplici: dalla mancanza di acqua e rifornimenti alimentari fino alle migrazioni forzate, passando per la perdita di biodiversità, l’erosione e la salinizzazione del suolo o le crisi economiche (la Banca mondiale stima costi globali che si aggirano attorno 15.000 miliardi di dollari l’anno).
Senza un suolo fertile, resiliente e in salute, non c’è vita. Il problema è che le cause della desertificazione sono molteplici – deforestazione, siccità, temperature elevate, agricoltura intensiva, incendi, urbanizzazione -, dunque non è banale intervenire in maniera mirata per mitigare il fenomeno.
La Cop15 di Abidjan comincia inoltre al termine di una delle settimane climaticamente più drammatiche nella storia dell’India e del Pakistan, colpiti da un’ondata di caldo e da una siccità senza precedenti: in alcune zone le temperature hanno superato i 45°C, sfiorando i 50°C. «Stiamo vivendo un anno senza primavera», ha detto Sherry Rehman, ministra pakistana per il Cambiamento climatico. Ma la zona del pianeta più danneggiata dalla siccità è un’altra, ossia la striscia del Sahel con gli otto Paesi africani che la compongono. In più, quasi il 50% della superficie del continente è minacciato da questa crisi.
La desertificazione sta arrivando anche in Europa
Pensare che la siccità e la desertificazione siano fenomeni limitati all’Asia o all’Africa, però, sarebbe un errore di superficialità e di sottovalutazione del rischio. La degradazione del suolo sta avanzando rapidamente anche in Europa, soprattutto nei Paesi mediterranei, ed è quindi un problema che ci riguarda da vicino. Non ai livelli del Sahel o dell’India, ma questa non è un’attenuante per avere il paraocchi.
«La desertificazione in Europa avanza inesorabile. Il rischio di desertificazione è particolarmente serio nel Portogallo meridionale, in alcune aree della Spagna e dell’Italia meridionale, nel sudest della Grecia, a Malta, Cipro e nelle zone che costeggiano il Mar Nero in Bulgaria e Romania», si legge sul sito della Corte dei conti europea, che nel 2018 ha pubblicato un’esaustiva relazione ad hoc.
Secondo uno studio dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea), tra il 2008 e il 2017 c’è stato un incremento del 10,6% dei territori dell’Europa centrale, meridionale e orientale contraddistinti da una sensibilità elevata e molto elevata alla desertificazione. Gli ultimi dati disponibili mostrano che l’8% del territorio dell’Unione europea è a rischio. Tra i Paesi più vulnerabili c’è la Spagna che, secondo le Nazioni Unite, ha il 74% della superficie esposta a questo fenomeno. Sfogliando l’ultimo World Atlas of Desertification della Commissione europea, si può leggere che «il costo economico del degrado del suolo per l’Unione europea è stimato nell’ordine di decine di miliardi di euro all’anno».
Anche l’Italia, come la Spagna, inizia pericolosamente ad ansimare. Ricorderete bene la mancanza di piogge invernali nel nord Italia e le immagini del fiume Po in secca a fine marzo 2022, come se fosse estate: uno dei tanti campanelli d’allarme di un clima che sta cambiando, e non in meglio. Tra il 2008 e il 2017, sempre secondo la Corte dei conti europea, le aree a rischio desertificazione elevato o molto elevato sono aumentate di 177.000 chilometri quadrati, per un totale di 645.000 chilometri quadrati di Italia (il 20% sul totale) minacciata degradazione del suolo. Secondo Confagricoltura, «l’Italia è lo Stato che in Europa risente di più dei cambiamenti climatici».
L’accelerazione (tardiva?) dell’Unione europea
I numeri in peggioramento hanno spinto l’Unione europea ad accelerare, forse un po’ in ritardo. «L’Ue non dispone di un’apposita strategia o di un quadro normativo specifico in materia di desertificazione», scriveva quattro anni fa la Corte dei conti europea. Nel novembre 2021, tuttavia, la Commissione europea ha finalmente approvato la Strategia del suolo per il 2030, un piano per scongiurare un profondo aggravamento della desertificazione.
Gli obiettivi per il 2050 sono tre: rendere i suoli europei sani e resilienti; ridurre allo zero il consumo netto di suolo; proteggere e gestire i terreni tramite strategie sostenibili (che comprendono un ripristino del suolo attualmente degradato). Al momento, però, l’Unione europea ha rimandato al 2023 la presentazione di una legge europea per una tutela armonizzata della salute del suolo.
Nel mondo, uno dei progetti più ambiziosi contro la desertificazione è quello della Grande Muraglia Verde in Africa, che consiste in una distesa di alberi e piante lungo 7.700 chilometri (copre circa 100 milioni di ettari di terra). Il piano è stato annunciato nel 2007 e, dopo numerosi ritardi, potrebbe auspicabilmente trasformarsi da fallimento a opportunità concreta, anche se gli ostacoli organizzativi e infrastrutturali abbondano.
In generale, la riforestazione è una delle strategie più indicate e utilizzate per rigenerare il suolo. Tuttavia, esistono altre modalità. Non sempre bisogna piantare nuovi alberi e piante, ma anche gestire e proteggere in modo lungimirante i polmoni verdi esistenti. Si tratta del metodo adoperato dai ricercatori del progetto Leddra (“Land and ecosystem degradation and desertification: assessing the fit of responses”), che puntano anche su altri fattori: la prevenzione del pascolo eccessivo, il mantenimento dell’irrigazione tradizionale e l’agricoltura basata sul riciclo di materia organica.
Un altro esempio valido consiste nell’agricoltura conservativa, un sistema di produzione agricola sostenibile che non prevede l’aratura e che può essere valorizzato dalle tecnologie digitali (trattori a guida autonoma, droni che mappano le coltivazioni).
Le Nazioni Unite, inoltre, sostengono l’efficacia di programmi di “educazione all’agricoltura sostenibile” per i piccoli agricoltori. In Etiopia, per esempio, il governo e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) hanno spesso organizzato workshop e corsi di aggiornamento per insegnare ai contadini come piantare alberi, costruire piccole dighe e limitare l’uso del legno proveniente da boschi e foreste. Insomma, un’agricultural literacy diffusa può solamente portare benefici, non soltanto nei Paesi con tassi di alfabetizzazione più bassi. Anche se, come possiamo dedurre dai dati del Global Land Outlook riportati all’inizio dell’articolo, il vero cambio di paradigma deve avvenire soprattutto all’interno di quell’1% di (grandi e influenti) aziende agricole che gestisce il 70% del suolo coltivabile del pianeta.