La finale di Coppa Italia ha detto Inter. Ci si erano aggrappati tutti a questo trofeo un po’ snobbato che parte sempre in sordina, una mezza scocciatura quando si lotta per lo scudetto o si gioca in Champions, con quei turni infrasettimanali che aggiungono una fatica in più. Ma poi, quando si deve decidere il trofeo le squadre ringalluzziscono e si affrontano a muso duro, soprattutto quando il blasone conta e conta la bacheca e il conto in banca perché 7 milioni nelle casse sono un bel regalo in tempi asfittici come quelli che vive il calcio italiano.
E dunque Juve e Inter ci tenevano molto, la prima per risollevare una stagione decisamente infelice e l’altra per mitigare la momentanea ma con grandi probabilità definitiva scucitura dello scudetto dalle maglie. La sfida di sempre tra due squadre storicamente nemiche è andata a corrente alternata e i subentri dalla panchina e i cambiamenti dei due allenatori sono stati decisivi. Inzaghi ha messo in campo una formazione al quanto conservativa. Con una fascia destra Darmian-D’Ambrosio che sembrava una blindatura, spostando l’asse del gioco su Perišić e il suo stato di strabordante forma.
Allegri, senza un vero regista e con una mediana muscolare schierava Danilo a proteggersi sulla fascia e innestando Bernardeschi a scompigliare le carte. Due “musi corti”, come si dice nel neologismo di quest’anno. Allegri diventa coraggioso quando, sotto del gol di Barella, deve sostituire proprio Danilo infortunato. E si lancia nell’avventura di schierare Morata con Vlahovic e Dybala e Bernardeschi. Che paga bene, perché la Juve prende il sopravvento, gioca meglio e capovolge la partita. Vlahovic segna di potenza e tecnica e di orgoglio. E ai tifosi mostra la maglia, perché in panchina si avvilisce. Detto di Dzeko: non pervenuto, ci vuole un rigore, dato da Valeri e confermato dal Var per ricacciare lo spauracchio del nerazzurro senza tituli dopo una buona stagione.
Le polemiche a posteriori sono infinite, come sempre. Lautaro ha simulato, è lui che inciampa in una selva di gambe, ma pare che De Ligt lo colpisca prima. Sta di fatto che Ҫalanoğlu, rigorista ormai in pectore, tira una bordata che sbatte sul palo e finisce nel sette. Di rigori ce ne sono due, Perišić tira anche lui una pezza alta sotto la traversa, si vede che gli scarsi rigoristi dell’Inter si sono allenati a alzare la palla dopo i disastrosi rasoterra di Lautaro. Anche qui è il Var che richiama l’arbitro per il fallo ancora di De Ligt che fa rimpiangere la coppia perfetta di Juventina memoria.
Chiellini gioca una partita magistrale, e fa versare lacrime agli juventini ma anche agli amanti del gran calcio, quando ai microfoni post partita annuncia il previsto addio al prato verde con la maglia bianconera e della nazionale. Sorride quasi nervosamente commosso quando lo dice, emozionato come un bambino che la fa grossa, e ci accorgiamo tutti che perdiamo un campione vero, un uomo esemplare per dedizione, lavoro e soprattutto classe infinita. La Juve dovrà provvedere presto e bene sul suo lascito nella sessione di mercato, perché uno così si pesca una volta in un decennio. Chiellini lascia titolatissimo dominatore nel dominio Juve degli anni d’oro prima della crisi recente. Sembra la rappresentazione di una svolta che la squadra deve obbligatoriamente ottemperare.
Stavolta dopo i cambi alla guida, prima Sarri, incompatibile con l’ambiente Juventino e Pirlo, colpevolmente acerbo, alla ricerca di una quadra, Allegri avrà le idee più chiare. Oltrepassare il mangiatutto Cristiano Ronaldo non era facile. Ma oggi la Juve riparte con un centravanti che, inserito e rodato meglio, può fare sfracelli. E puntare su Chiesa finalmente abile potrà aumentare il potenziale.
Inzaghi si è ritrovato vittorioso: se sparisce lo scudetto, apparirà il cerchiolino tricolore sulle maglie, ma buttare via malamente certe partite certifica che, sebbene l’Inter sia la squadra che esprime il miglior calcio nostrano, ha dei vuoti di memoria realizzativa che deve colmare perché in questo campionato basta un gol vero senza prenderne per vincere. Nella finale di Coppa Italia ce ne sono stati sei di gol, e la dimostrazione che una squadra offensiva conviene. Quando Allegri si è protetto, togliendo il tridente quasi quadrente, i suoi avversari hanno preso campo. Quando Inzaghi ha mollato la catena destra surgelata e ha inserito Dumfries e il supporto di Dimarco a Perišić la squadra ha preso le ali. Skriniar a sinistra è un obbrobrio impacciato e perde la sua implacabilità.
Alla fine la certezza più certezza è stata Ivan Perišić. Lui, anni 33 e un rospetto di nuovo contratto in gola e Giorgio Chiellini, anni 38, sono stati una bella spanna su tutti gli altri. L’esperienza conta ancora parecchio. Tra le due contendenti, a alimentare rivalità, striscia Dybala. Discontinuo genietto dà la sensazione di avere un carattere più morbido e gentile, privo della grinta stratosferica che contraddistingue i bianconeri. Il suo assentarsi, per infortunio e per pause, è frequente, troppo fioretto e poco sacrificio. Se ne va dalla Juve, forse forse arriverà all’Inter. La sfida è anche fuori dal campo. Come si è visto nella solita gazzarra tra le panchine, più che nel rettangolo verde.
Ma è mai possibile che ogni volta che le due squadre si affrontano nascono parapiglia insopportabili in cui il quarto uomo è messo in mezzo come un arbitro sul ring di pugilato? Comprendiamo la vis polemica, l’atavico odio che continua imperterrito dai tempi di Calciopoli, ma oltre la linea bianca, in quelle aree riservate alla maratona degli allenatori e sulle panchine tra secondi, massaggiatori, riserve e accompagnatori, le mani e i piedi frullano, le parole si infuocano, le provocazioni sono continue, la rissa pronta a scatenarsi.
Non potrebbero accendersi le anime invece degli animi? Ci si chiede perché nei campetti giovanili i genitori, allenatori ovviamente in fieri, insultano in difesa dei figli e, più spesso che mai, come furie entrano in campo e aggrediscono gli arbitri. La risposta è qui, allo Stadio Olimpico nella finale di Coppa Italia vista da mezzo mondo. Una partita accesa come questa è palese che sia tesa e nervosa nell’agonismo, ma poi è strabordata fuori in insulti, gestacci, prese per i fondelli, contatti pericolosi.
La foga del gioco non trova un sano rispetto ai margini del campo. L’intensità fisica, le decisioni arbitrali, gli scontri tra giocatori si possono tranquillamente mettere in previsione. Diverso è il comportamento di quello che si chiama entourage. Allegri ha pagato con l’espulsione ma se davvero, e speriamo che le immagini lo chiariscano, ha preso una pedata interista come lui stesso ha dichiarato, la sanzione sia uguale. Si parla continuamente di esempio per i giovani, l’ha detto anche Chiellini, di valori umani e sportivi.
I valori si mettono in pratica, su dai, altrimenti valgono un soldo bucato.