Palloni sgonfiatiPerché la Serie A è ingovernabile

Le divisioni tra i club rendono quasi impossibile trovare un presidente di Lega in grado di fare gli interessi di tutti. Le dimissioni di Dal Pino arrivano dopo nuove tensioni tra le società e la federazione, questione su cui l’ormai ex presidente non era intervenuto

Claudio Furlan/LaPresse

«Ho cercato di affrontare i temi critici della governance della Serie A e dell’innovazione, portando avanti la creazione di una media company e l’ingresso nel capitale dei fondi di private equity. La proposta dei fondi si è arenata per i motivi che conoscete. La bontà del progetto è stata poi purtroppo certificata da altri, con la Liga spagnola che ha concluso un accordo […] portando avanti la stessa visione strategica». La lettera con cui Paolo Dal Pino, imprenditore e manager classe 1962, ha annunciato le dimissioni da presidente della Lega Serie A sono un messaggio alle prospettive del massimo campionato di calcio italiano, a quel che dovrebbe essere (secondo lui) e non è ancora, agli aggiornamenti chiave che il campionato non sembra in grado di fare.

Sono stati due anni difficili oltre ogni previsione per Dal Pino. C’entra ovviamente la pandemia, che da inizio 2020 ha costretto a ripensare l’economia del calcio in Italia, cambiando le posizioni di tanti presidenti all’interno dell’Assemblea – compresi quello che all’inizio erano dalla sua parte (come Claudio Lotito, che all’inizio lo aveva sponsorizzato e poi ne ha chiesto la testa).

Al rinvio di Juventus-Inter, a marzo 2020, il presidente nerazzurro Zhang definì Dal Pino «il più grande pagliaccio mai visto». Un anno più tardi i rappresentanti di Atalanta, Fiorentina, Inter, Juventus, Lazio, Napoli ed Hellas Verona ne hanno chiesto le dimissioni per una gestione dei diritti tv e delle trattative con i fondi di investimento non all’altezza delle loro aspettative.

È evidente che Dal Pino non sia riuscito ad accontentare la visione dei presidenti, dei club, delle persone di cui avrebbe dovuto difendere gli interessi. Ma una Lega così composta e regolata, con spaccature interne, divisioni tra i club e “correnti” di pensiero, forse sarebbe stata incontentabile, indipendentemente dal presidente.

Formalmente le dimissioni di Dal Pino arrivano a seguito di uno scontro tra le società e la Federazione, il presidente di Lega in ombra sullo sfondo.

I nuovi principi informatori varati dalla Figc prevedono un abbassamento del quorum nelle votazioni in Assemblea: le decisioni più importanti – sfiducia dei vertici a parte – si possono prendere a maggioranza semplice, in modo da superare i veti che negli anni hanno bloccato le riforme e migliorare la capacità decisionale.

Una riforma già approvata da Serie B e C, alla quale però la Serie A si è opposta. La risposta dei 20 club sta in una lettera contro la Figc e il presidente Gravina, inviata al presidente del Coni Giovanni Malagò e alla Sottosegretaria allo Sport Valentina Vezzali.

Nelle 26 righe della lettera le società spiegano che la pretesa della Federazione di modificare lo statuto non sia «conforme al diritto per la mancanza dell’indispensabile norma primaria che attribuisca un simile potere normativo alla Federcalcio e per la natura stessa della Lega che è un’associazione privata».

In pratica i club stanno difendendo il loro diritto a non riuscire a votare mai nulla: la maggioranza qualificata dei due terzi si è rivelata spesso un ostacolo insormontabile. Anzi, la stessa lettera sarebbe in realtà opera di un gruppo di sole 12 squadre, non dell’unanimità, né della maggioranza qualificata: nel documento c’è il nome di tutti i club, ma otto di queste – Torino, Bologna, Roma, Milan, Genoa, Spezia, Cagliari ed Empoli – avrebbero contestato la decisione di usare toni così aspri.

Come se non bastasse, il presidente della Serie A, Dal Pino, non avrebbe mai accettato di firmare una lettera di questo tipo – firma non necessaria, in ogni caso – visti i buoni rapporti con il presidente della Federazione Gabriele Gravina.

Forse proprio quest’ultimo episodio rappresenta bene le condizioni del presidente del massimo campionato di calcio italiano, la cui autorità è sgonfiata dalle divisioni interne della Lega.

In Spagna, per cercare un modello di governance quanto meno paragonabile, gli equilibri di potere sono molto diversi. Javier Tebas è presidente della Liga Nacional de Fútbol Profesional, cioè l’associazione responsabile dell’amministrazione dei due campionati di calcio professionistici spagnoli – come se fosse presidente di Serie A e Serie B, cioè la situazione italiana prima della presidenza di Maurizio Beretta.

Oggi Tebas è al terzo mandato (2013, 2016, 2019) ma è entrato nel board della Liga già nel 2001 (da vicepresidente). Da quando è il numero uno è riuscito a imporre la sua visione di crescita basata sul controllo economico (parametri finanziari rigidi, chi non li rispetta è escluso dalle competizioni, come il Murcia nel 2014), la vendita centralizzata dei diritti audiovisivi e una strategia di internazionalizzazione e leadership tecnologica.

Al di là delle visioni e degli ideali – simpatie per l’estrema destra mai troppo nascoste – Tebas ha sempre potuto seguire la sua strada, il suo progetto.

Anche in Inghilterra, il centro di comando della Premier League – cioè la lega che genera il grosso della ricchezza nel movimento calcistico inglese – è molto autonomo rispetto alla Football Association e soprattutto è scollegato dai campionati minori, gestiti dalla Football League.

Una condizione che i club di Serie A hanno provato a importare. In Assemblea di Lega spesso soffiano venti separatisti rispetto alla Figc: all’interno del Consiglio federale, infatti, la Lega Serie A conta per 3 voti su 21 e, dal momento che è il vero motore del sistema, i club vorrebbero avere maggior peso nel difendere i propri interessi. Cioè una richiesta ovvia, legittima, per certi versi scontata, a patto di trovare però la capacità di trovare unità d’intenti al proprio interno.

Adesso la prossima data chiave per capire il destino della governance della Serie A sarà il 15 febbraio. È la data di scadenza per adeguare lo statuto ai principi informatori stabiliti dal Consiglio federale lo scorso novembre. Dopo quel termine la Figc procederà con il commissariamento, cioè la soluzione che tutti i presidenti dei club vorrebbero evitare.

Il sistema elettorale prevede la maggioranza qualificata di due terzi nelle prime due votazioni, e quella semplice (maggioranza più uno) dalla terza votazione. Ma mettere d’accordo 14 società non sarà facile, nemmeno per Claudio Lotito, che vorrebbe essere il kingmaker per portare uno suo uomo alla presidenza e imporre così una Lega in grado di mettere in minoranza i grandi club. Sembra la partita del Quirinale, solo che qui non c’è Sergio Mattarella a salvare tutti.

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