«Iiin-credi-bile, amisci!».
Una ventina di anni fa, era l’esclamazione festante di José Altafini durante le telecronache di calcio ogni volta che una delle due squadre andava in rete – lo diceva sempre, che fosse o no un golaço, fosse il gol dell’ultima in classifica che batte la capolista, o il secondo-terzo-quarto della capolista che come da copione inanella l’ennesima vittoria.
Adesso che il vecchio campione ha lasciato i microfoni e si gode il meritato riposo, gli amisci non sanno più a cosa si possa credere. «Incredibile!» si infervora il telecronista, variamente modulando il tono, non necessariamente in presenza di un gol. «Incredibile» conferma il commentatore al suo fianco. E visto che anche una mischia, un batti-e-ribatti, un mancato aggancio del centravanti, un liscio del difensore, una papera del portiere sono tutti incredibili, il gol appena un po’ spettacolare diventa «pazzesco» (e a segnarlo, quasi sempre, è «proprio lui». Perché «proprio»? Mah). (Detto per inciso, «incredibile» e «pazzesco» sono stati gli aggettivi più abusati, al Festival di Sanremo, da giovani e meno giovani cantanti in gara per esprimere «l’emozione di essere su questo palco»).
Ora, è facile obiettare che un gol incredibile potrebbe essere quello segnato dopo che il pallone respinto dalla traversa è rimbalzato sulla testa dell’arbitro, ha fatto ping-pong tra i due pali e infine è stato scaraventato in rete da un piccione di passaggio (perché un piccione non è in grado di calciare, e comunque nessuno l’ha autorizzato a entrare in campo). E un gol, anzi un autogol pazzesco sarebbe quello di un attaccante che riceve palla nell’area avversaria, fa dietrofront, scarta tutti i suoi compagni di squadra e insacca nella propria rete. (Mentre non c’è nulla di incredibile né di pazzesco a essere emozionati sul palco dell’Ariston, davanti a una platea televisiva di 13 milioni di spettatori). Ma diamo per buono l’uso traslato.
Il povero lessico di questi tempi enfatici si strafoga di iperboli. Ma sono, appunto, misere iperboli, per qualità e varietà. E il lessico che ruota intorno al calcio spicca per indigenza, da quello dei telecronisti a quello dei dirigenti sportivi, degli allenatori e dei (pochi, ormai) calciatori italofoni.
Sono lontani i tempi dei tecnicismi magari astrusi ma pertinenti – il «campo per destinazione» (ossia la fascia di terreno erboso che circonda il perimetro di gioco: il mitico Sandro Ciotti non mancava mai di pronunciare questa formula sapienziale in almeno uno dei suoi interventi in Tutto il calcio minuto per minuto), il «primo (o secondo) palo», la «mano di richiamo». Adesso vanno di moda i voli pindarici, con schianto incluso.
I gol, incredibili o pazzeschi, sono tutti «magie». Anche nei titoli dei giornali. Anche se sono segnati a due passi dalla porta. «Magia» è ormai sinonimo di gol (e per fortuna a nessuno è ancora venuto in mente di evocare la magia nera quando a segnare è un giocatore di colore: almeno in questo caso, il politically correct aiuta). Il termine “magia” si sarebbe potuto usare più a ragion veduta, per dire, a proposito di un gol del “Pibe” Maradona (a scelta, uno dei due, quello di mano o quello in dribbling coast-to-coast, contro l’Inghilterra ai Mondiali dell’86) o per uno di “Roi” Platini (quello sciaguratamente annullato nella finale intercontinentale vinta dalla Juventus contro l’Argentinos Juniors nel 1985). Ma all’epoca, per buona sorte dell’epoca, il linguaggio figurato non era ancora d’obbligo nei servizi televisivi sul calcio, l’unico capace di maneggiarlo con eleganza (Beppe Viola) essendo purtroppo prematuramente scomparso.
Ora, invece: quando l’attaccante stacca di testa, «sale sull’ascensore»; quando l’arbitro fischia la fine del primo tempo, «manda tutti a prendere un tè caldo» (in inverno; altrimenti, più banalmente, «manda tutti negli spogliatoi», e alla fine del match «utti sotto la doccia»); mentre, nel caso di tempi supplementari e di ulteriore parità, arriva inevitabile «la lotteria dei calci di rigore». Per il linguaggio metaforico vale la stessa avvertenza del brocardo ne bis in idem: quando un’immagine (e non stiamo qui a discuterne la qualità) viene utilizzata non per la seconda ma per la terza, quarta, quinta, millesima volta, smette di essere un eventualmente efficace espediente retorico e diventa un insulso ferrovecchio che esemplifica alla perfezione l’altro motto latino perseverare est diabolicum.
Così come sono diabolici tutti quegli usi creativi del lessico che dall’ambito ristretto degli addetti ai lavori sono passati a contagiare i tifosi, ormai avvezzi a disquisire disinvoltamente di «profili» («il tale club sta seguendo un profilo del 2000»), «prospetti» («il tal giocatore è un interessante prospetto»), «inerzia della partita» (inerzia della partita!). Mentre è (per ora, ma già si intravedono i primi salti di specie) più limitata ai protagonisti – giocatori e soprattutto allenatori – la coazione a ripetere senza freni un unico aggettivo multiuso, «importante», in luogo di quelli che sarebbero di volta in volta appropriati: «un profilo importante, «una giocata importante», «un avversario importante», «una cifra importante», «un finale di stagione importante».
Ma che importa. Tutto svanisce di fronte al (davvero) incredibile e (propriamente) pazzesco gesto sacrilego dei portieri che «battezzano la palla fuori». Con i portieri battisti non siamo più alla manipolazione creativa, ma alla devastazione barbarica della lingua. Come, a chi sarà saltato in mente un simile obbrobrio? Soltanto alla prima di queste due domande possiamo azzardare una risposta, con un esempio: c’è una palla che vaga in area, il portiere vuole che i suoi compagni gliela lascino e grida (la «chiama», come si dice in gergo calcistico) «Mia!»; oppure il tiro è potente, ma non nello specchio della porta, il portiere lo capisce al volo e grida («chiama la palla») «Fuori!». Chiama, quindi dà un nome, quindi battezza. Saranno questi i passaggi (il)logici che hanno portato all’eresia linguistica? Chissà. Di sicuro qui c’è lo zampone di Belzebù. Bisogna chiamare un esorcista.