È Milan numero 19. Dopo 11 anni di pellegrinaggio verso la consapevolezza, attraverso anni vuoti e cinesi sbagliati, ecco gli americani giusti. La lenta ricostruzione ha dato ottimi frutti, passo dopo passo, la squadra è giunta alla meta, condotta da due figure fondamentali che al di là dei singoli giocatori emergono come pietre miliari: Maldini e Pioli. Che prima di essere guide preparatissime di calcio sono due persone di grande spessore umano, educazione e intelligenza. E senso del rispetto. Loro due hanno preso per mano una squadra costruita con acume e neanche tanti soldi. Il Milan è quinto per spese calcistiche perché ha scelto giovani di prospettiva, prestiti azzeccati, figure carismatiche, lo zampino di Ibrahimovich, e compattanti. E comunque non è un caso che l’immediata eliminazione dalla Champions abbia di fatto concentrato la società sul terreno nazionale.
È uno scudetto formato family, papà, mamma e figlioli, lo slogan l’unione fa la forza, vecchio come il cucco, ha funzionato. Tutti per uno, uno per tutti, questo è stato il segreto. Con pochi giocatori veramente di livello internazionale, Pioli con sapienza artigiana ha saputo mescolare le posizioni, misurare i cambi, scegliere sempre bene, motivare con il ragionamento e la sua personale determinazione. È il suo primo scudetto, la sua era la gioia più grande.
Il primo fondamentale mutamento di questa stagione è stato l’intuizione perfetta di sostituire l’esoso e sopravvalutato Donnarumma, Mino Raiola da lassù non ce ne voglia. Maignan è stato un grande portiere di mani, di piedi, di visione. Felino nelle parate, giavellottista nei lanci. Uno delle armi migliori del Milan, la vera alternativa al possesso palla e al famigerato gioco dal basso, che tanti guai ha portato ai portieri, è stata la rimessa con lanci infiniti a cercare di scavalcare il centrocampo avversario e abbreviare i tempi, tenere il ritmo. Soprattutto quando hai gente che corre maledettamente forte e brucia l’avversario.
Leao e Hernandez (tieni a bada il tuo pitbull killer, ragazzo) sono stati un asse sinistro da ferro da stiro che dava una sola dimensione ai difensori, sagome di cartone abbattute. In difesa Pioli ha fatto un altro capolavoro dopo aver perso un pilastro come Kjaer, responsabilizzando Tomori e fiduciando Kalulu. Il reparto arretrato era una debolezza, è diventato, nell’equilibrio, una forza.
È dunque Milan, stabilito anche dalla sonante vittoria contro il Sassuolo e dai volti degli interisti che rientravano in campo per il secondo tempo con l’espressione afflitta. L’Inter lo scudetto l’ha perso un po’ da sola, pur avendo segnato più di tutti e mostrato un gioco a tratti bellissimo, fatto di triangolazioni rapide e spettacolari. Ma se contassimo i tentativi di gol sarebbe ancora più evidente la superiorità e l’inferiorità. Se per segnare devi tentare cento volte, manca quella spietata qualità che la risolutezza del cinismo.
Cosa è andato storto, al di là di singole circostanze? Il 3-5-2 di Conte era ben diverso da quello di Inzaghi. L’Inter giocava peggio, difesa impenetrabile, tutto su Lukaku e gol, il contropiede. Ma aveva la ferocia spadroneggiante del suo allenatore. Il suo bisogno assoluto di superiorità. L’Inter è tornata pazza. Ha un portiere e un centravanti vetusti, Handanovic vive di esperienza, quella che manca al suo successore Onana, e Dzeko, pur nella sua sagacia in campo, è troppo lento sotto porta. Certi errori macroscopici hanno vanificato il meccanismo di Inzaghi, comunque bravissimo, che di suo era statico: mai un mutamento di tattica, mai un colpo di genio per scombinare partite messe male. L’esperienza con il Liverpool l’ha rimpicciolita, avvilita.
Per i tifosi è una grande delusione, attendevano la seconda stella hanno trovato la modesta Coppa Italia. In fondo se Giroud, che è l’uomo dai gol importanti e sporchi, non avesse capovolto il derby in 5 minuti, e se Radu non avesse fatto il più grande errore della sua vita, oggi Milano sarebbe nerazzurra. Il mese di gennaio, con quello sciocco girone avulso inventato dalla Lega, è bastato per affossare il proprio destino. Se Brozovic unico faro manca o è spento, l’Inter non gira. E questa è la pecca di una squadra che non sa arrangiarsi in emergenza, e che ha fatto splendere l’altro destino, quello dei cugini che ci hanno creduto come matti , non feroci come i Contiani ma caparbi e testardi da Tonali e Calabria in giù. A loro va l’onore di aver vinto con immenso orgoglio un campionato che di bellissimo ha avuto solo gli alti e bassi di un tot di squadre che si illuminavano e poi si spegnevano.
È stato il campionato delle intermittenze, di una dinamo fasulla. Quella che ha spento definitivamente un bel Napoli, finito evanescente in quello che una volta era stato il suo teatro, ora stadio Maradona. Insigne se ne va, altri se ne andranno, Spalletti resta in sella con le sue arzigogolate dissertazioni al limite della comicità e farà comunque la Champions. Con o senza Osimhen, talento esplosivo molto appetito da parecchie squadre, farà la differenza.
La dinamo difettosa della Serie A non ha dato abbastanza energia alla Juventus, sbagliata negli uomini scelti, allenatori e giocatori precedenti, e che dovrà innescare un piano di robusta ricarica estiva e buttare le lampadine di pochi watt. Certi nomi non risplendono e non sono da Juve, e la lista è lunga. Allegri il Furioso non è bastato, il gioco è così così e i tantissimi infortuni fanno riflettere. Dybala pecca di personalità e va altrove, Chiellini di sicuro a Los Angeles. Ritorna Pogba con qualche anno in più ma servono campioni. Agnelli si sta già tirando su le maniche.
Anche la più costante degli ultimi anni, l’Atalanta, è andata in black out. Il gioco a uomo di Gasperini ha fatto il suo tempo, è mancato il movimento fisico incessante e Zapata. I Percassi restano a guidare una società che però non è più loro.
Le romane se la cavano nel solco della tradizione di classifica, loro sono state l’esempio perfetto della dinamo tremolante, e commuove vedere la passione smisurata di Mou e tifosi per una finale di Conference League. Che ha un valore simbolico non da poco per i giallorossi.
I gracchiamenti elettrici, buio-luce, hanno colpito la zona retrocessione. Stringe il cuore vedere le lacrime di chi, spremuto nel suo sudore si accascia sull’erba stremato. Cagliari, Genoa, Venezia tre grandi città, lasciano. Vincono le piccole realtà, l’ottimo Empoli di Andreazzoli, lo Spezia, la Salernitana di Nicola il Santo, data per vittima sacrificale, sull’orlo del ritiro dal campionato.
La Salernitana non giocava in undici ma con migliaia di tifosi meravigliosi accanto. Bello il ritorno agli stadi popolati non di seggiolini colorati ma di persone vive, non di nastri preregistrati per fingere il tifo ma di urla e cori veri, bandiere gigantesche e coreografie fantasiose. Curve che si fronteggiano, la gioia che gira come un vortice tra gli spalti, la coralità di cui lo spettacolo del calcio si nutre: e cambia tutto.