Nani da spiaggiaIl settore del turismo italiano è frammentato, stagnante e lento. E presto dovrà cambiare

La stragrande maggioranza delle imprese è minuscola e ha un tasso di turnover bassissimo (mentre è alto quello della seniority: vengono chiamati ogni anno sempre gli stessi). Per crescere serve altro e la Great Resignation forse potrebbe funzionare da leva

di Timo Wagner, da Unsplash

Come sarà l’estate del turismo nel 2022? Tra la speranza di lasciare il Covid definitivamente alle spalle e i rincari dei trasporti, degli alloggi, dei lettini e degli ombrelloni, le certezze sono poche. Tra queste, quasi sicuramente, vi è il superamento della Francia e della Spagna nei confronti dell’Italia in un indicatore decisivo, quello della quantità di denaro speso nel Paese dai turisti stranieri. È sempre sempre stato così nell’ultimo decennio, ben prima della pandemia – con la quale, al contrario, si è visto un certo recupero del nostro Paese.

Ma come ce la caveremo con il ritorno alla normalità? Le proteste degli imprenditori balneari di fronte all’arrivo della concorrenza e del mercato nel loro settore la dicono lunga sulle caratteristiche strutturali del turismo italiano, le quali in fondo non sono molto diverse da quelle dell’economia nel suo complesso, con l’aggravante che in questo caso parliamo di un settore intrinsecamente e inevitabilmente a basso valore aggiunto.

Quando un comparto è maturo o comunque non può offrire ritorni significativi si tende ad aumentare i volumi, a ingrandire e aggregare. Non è però quello che accade qui.

La stragrande maggioranza delle imprese di questo ambito, che si occupino di alloggio, di ristorazione, di organizzazione di viaggi, è piccola, minuscola. Nel 91,6% dei casi hanno meno di 10 addetti nel nostro Paese. Lo stesso accade, bisogna dirlo, anche nel resto d’Europa; in media, infatti, nella Ue sono l’88,8% le aziende che hanno tra zero e nove dipendenti.

Ma la differenza maggiore la fa la quota di quelle che ne hanno più di 20, solo una su 50 in Italia, il 2%. Solo in Belgio e Slovenia sono di meno. In Spagna salgono al 3,1%, in Nord Europa e in Germania superano o sfiorano il 10%.

Dati Eurostat

I divari sono ancora più importanti nell’ambito occupazionale: l’Italia è dopo la Slovacchia il Paese in cui è maggiore la percentuale di lavoratori che si ritrova, nei settori legati al turismo, a lavorare in una realtà con meno di 10 addetti, il 56,4%.

Sono molti meno persino in Grecia, che pure sul nanismo aziendale ci è sempre stata simile. Qui sono solo il 34,5%, mentre il 22,8% è impiegato in imprese medie e grandi (con più di 50 dipendenti) contro il 16,7% italiano.

Anche in questo caso è evidente la distanza tra l’Est Europa, più simile al nostro Paese e il Nord del Continente, ovvero quelle realtà in cui guarda caso il tasso di occupazione è elevato e gli stipendi sono mediamente alti, e negli ultimi anni sono saliti molto, come è accaduto in Svezia, Irlanda, Norvegia, Danimarca, Germania.

Qui evidentemente la pressione salariale al rialzo ha contribuito alla nascita di imprese di maggiori dimensioni, catene per esempio, che potessero permettersi di pagare di più i dipendenti, grazie a una migliore gestione manageriale, all’abbattimento dei costi fissi, a una capitalizzazione decisamente più ampia, a un accesso più sicuro al credito. Gli imprenditori italiani del settore prenderanno esempio?

Dati Eurostat

Del resto anche se poche sono soprattutto queste imprese, quelle non minuscole, a produrre la fetta maggiore dei ricavi. Quelle con meno di 10 persone assunte in Italia sono il 91,6% del totale, hanno il 56,4% dei lavoratori del settore, ma realizzano solo il 43,7% del giro d’affari complessivo del turismo. Altrove naturalmente questa percentuale è ancora inferiore.

Dati Eurostat

Che questa struttura aziendale non sia proprio l’ideale, non solo per chi vi lavora, ma per gli imprenditori stessi, è abbastanza evidente anche dall’andamento del fatturato e del valore aggiunto del settore in Italia e negli altri Paesi già prima del Covid

Certamente il turismo, come l’ambito del Food & Beverage, ha avuto una crescita, determinata più da un cambiamento delle abitudini e delle preferenze che da una maggiore disponibilità di denaro. Da qualche decennio, infatti, il consumo esperienziale sta sostituendo parte di quello materiale.

E tuttavia in Italia gli incrementi sono stati inferiori a quelli che hanno interessato la concorrenza mediterranea come Croazia, Grecia, Spagna. Tra il 2011 e il 2019 il fatturato dei settori legati al turismo croato è quasi raddoppiato, mentre in Grecia è cresciuto del 50,6%, in Spagna del 41,2%, nel nostro Paese del 26,5%.

Dati Eurostat

Tra gli effetti vi è una quota di personale a termine decisamente superiore a quella media europea. Nel 2021 ha raggiunto il 34,6%, contro il 23,2%. Vi è stato un calo della percentuale di precari rispetto al periodo pre-Covid, quando era arrivata al 38,1%, solo perché la pandemia ha estromesso quasi solamente chi aveva un contratto a tempo determinato.

Dati Eurostat

Allo stesso tempo, tuttavia, è maggiore la seniority. Coloro che lavorano per lo stesso datore di lavoro per più di due anni sono la grande maggioranza, quasi l’80%, più che in gran parte degli altri Paesi.

Cosa vuol dire? Che nel Nord Europa anche chi ha un contratto a tempo indeterminato, la maggioranza, cambia con una certa frequenza impresa, alla ricerca di maggiori stipendi, per entrare in altri settori, o per fare altro, come studiare. Mentre da noi, viceversa, anche chi rimane nella stessa realtà per molto tempo rimane precario, assunto a termine, o con partita Iva.

Dati Eurostat

Le cose cambieranno anche in questo ambito con la Great Resignation e con i rapporti di forza che si stanno spostando dalla parte dell’offerta, ovvero dei lavoratori, a danno di chi la manodopera la cerca, gli imprenditori?

Sta soprattutto a questi ultimi determinarlo. Assieme alle condizioni di lavoro decideranno con le proprie scelte anche l’andamento di tutto il settore. Stabiliranno se sarà ancora l’ultima ruota del carro in termini di produttività, con, per esempio, solo poco più del 20% degli addetti che usufruiscono di corsi di formazione e riqualificazione (contro il 60% nell’ICT o nella finanza), o se cambierà in meglio.

Saranno chiamati a decisioni strategiche che altri colleghi altrove hanno già preso. Se ingrandirsi, accettare di fondersi, di vendere, magari di diventare manager pur se “sotto padrone” invece che rimanere a capo di una realtà micro costantemente in bilico, ogni anno meno in grado di essere attrattiva per i sempre meno numerosi giovani alla ricerca di un lavoro stagionale.

Le proteste dei gestori dei lidi non sembrano indicare che il settore sia pronto a cambiamenti profondi e strutturali, però. Per ora. Ci dovrà pensare la realtà a imporli?

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