Il Libano è il Paese dei contrasti. Ad esempio, le donne qui godono di maggiore libertà rispetto ad altri Paesi arabi ma è anche dove la loro mercificazione ha raggiunto vette parossistiche. La densità di cliniche di chirurgia plastica è impressionante e le libanesi sono molto influenzate dalle foto che le riviste patinate mettono in copertina. Ragazze snelle, glutei perfetti, seni da modella, nasi piccoli e all’insù. Le ragazze già a 14 anni chiedono e ottengono un intervento di chirurgia plastica al naso, con la complicità dei genitori. Di solito sono portate in clinica dalle loro madri. Le donne sopra i 30 anni ricorrono ancora di più alla chirurgia estetica: fanno il lifting, si rifanno gli zigomi e le labbra, gonfie in maniera innaturale. I volti che hanno subìto l’intervento finiscono per assomigliarsi tutti.
Alla base c’è una società apparentemente emancipata ma ancora tradizionale nella sostanza. È molto importante l’apparire e l’aspetto fisico per trovare un buon marito e condurre una vita agiata. In Libano queste operazioni si trovano a buon mercato. Un’operazione al naso si fa per poco meno di 3 mila dollari. Una protesi al seno si paga meno di 4 mila dollari. Il Libano è diventato così anche una meta del turismo medico all’interno della regione araba. Come anche la Giordania e la Turchia. Tuttavia, la sua reputazione per l’eccellenza medica è stata incrinata dal caso di Farah Kassab, una cittadina irachena di 33 anni morta durante un’operazione di liposuzione in uno dei più importanti centri di chirurgia plastica del Paese. Il chirurgo e proprietario della clinica in questione era il dottor Nader Saab, un’autorità nella chirurgia plastica in Libano.
Tra le donne libanesi, quelle di Beirut rappresentano un mondo a sé. Quelle di Achrafieh vivono un po’ all’europea, o meglio, alla parigina. Parlano arabo nei caffè con le loro amiche ma amano mischiarlo con il francese che usano in maniera impeccabile. Sono curatissime, vestite con attenzione al minimo dettaglio. Seguono le mode dettate dell’Occidente. A vederle accomodate in un ristorante sembra quasi di essere a Parigi a sbirciare due dame dell’alta società. Tra amiche ci si vede per il pranzo, per un caffè o per un tè. Si va in palestra al pomeriggio. Molti sono i club della città che diventano anche centri per fare public relations, luoghi di incontro e di gossip. A Beirut essere donna è un lavoro.
Le signore dell’alta società sono sempre divise tra un pranzo a Les gouton voir, un appuntamento dal parrucchiere, o per fare una manicure o un massaggio. Hanno la loro immancabile borsa Chanel o Dior, mangiano sano e dietetico e non amano fumare il narghilè, la pipa tradizionale che ha diverse essenze, la mela, il limone, la rosa. E così tra amiche a pranzo ci si racconta le proprie vite, si ride, si gioca.
Un mondo opposto a questo, con le sue regole e consuetudini, è quello delle donne di servizio. C’è una grande comunità di filippini che lavora nelle case delle famiglie dell’upper class della città. Anche io ho assunto una signora per darmi una mano in casa. Si chiama Amy, ha cinquant’anni. È precisa e fa le cose con cura. Ma dopo qualche settimana inizia ad arrivare in ritardo al lavoro, o addirittura non si presenta neppure.
Dopo un po’ di volte che si comporta così mi presenta una ragazzina sui 18 anni. Sky è il suo nome. E senza dirmi nulla, questa giovane la sostituisce. Regole tacite del mondo libanese. Sky è una ragazzina. Veste con jeans larghi, un berretto e ha i capelli rasati e tinti di rosso. Segue la moda rapper e punk. Fa tanta tenerezza. Anche lei si impegna molto. A volte però non si presenta a lavoro. E mi dice che aveva dimenticato che dovesse venire. Ma come si fa ad arrabbiarsi con lei? È così sola e indifesa. Dopo una breve ramanzina, si comporta con più responsabilità. Ha un corpicino gracile, è piccolina, e con l’aria un po’ perduta. L’accolgo a casa mia, come fosse una sorella minore.
Da Beirut au revoir, di Chiara Clausi, (Paesi Edizioni) pp.160, 14 euro)