Come le donne interagiscono, come si vedono – e, purtroppo, come sono ancora viste – e per cosa lottano. Parte da questi tre temi seminali l’analisi della contemporaneità in A feminine Lexicon, progetto digitale della più ampia mostra Donne in equilibrio 1955-1965, ospitata fino al 18 aprile 2023 all’interno dello storico palazzo Spini-Feroni, monumento architettonico e sede del Museo Salvatore Ferragamo.
Un viaggio, quello del percorso espositivo, che onora Wanda Ferragamo, donna riservata che poco avrebbe apprezzato il clamore intorno alla sua figura, raccontando in maniera più ampia cosa voleva dire esser donna e artefice del proprio destino, nel decennio tra il 1955 e il 1965, arrivando sino all’oggi. Perché è nel 1960 che Wanda, trentottenne la cui unica occupazione fino a quel momento era stata quella di Ceo casalingo del clan Ferragamo, si trova a dover gestire anche la maison produttrice di calzature, a causa della scomparsa del marito Salvatore.
Disabituata alla vita d’ufficio, ignara delle complesse meccaniche che regolavano il tran tran lavorativo del brand, di fronte alla scelta più difficile – vendere o cominciare la sua carriera con il compito assai gravoso di continuare a mantenere in vita un marchio il cui nome era quello del fondatore – si sedette nell’ufficio con vista sul ponte di Santa Trinita, e consegnò agli eredi un brand solido, internazionale, di successo.
La mostra, curata da Stefania Ricci e con il patrocinio del ministero della Cultura, inquadra quella storia in un più ampio contesto, quello storico del miracolo economico, che vide le donne, finalmente, mettere piede negli studi di design, nelle redazioni e nei consigli di amministrazione, portando esempi variegati, dalle Sorelle Fontana creatrici del sogno cinematografico sulle sponde del Tevere alle sorelle Giussani, penne dietro il mito di Diabolik, passando per la designer Gae Aulenti e Renata Brion, proprietaria di Brionvega.
Un affresco che getta luce anche sul presente, grazie proprio a A Feminine Lexicon, appendice digitale del percorso museale, curato da donne che appartengono all’oggi. Pia Diamandis ed Elena Torelli (rispettivamente classe 1999 e 2000) sono le studentesse del corso di Arts curating dell’Istituto Marangoni di Firenze, incaricate di selezionare undici artiste internazionali, nate tra il 1980 e il 1990, dedite al racconto dell’identità femminile contemporanea.
Una riflessione corale, quella intrapresa da Alfiah Rahdini, Johanna Toruño e Helena Hladilová (solo per citarne alcune), articolata secondo i temi dei legami, della rappresentazione e delle lotte. Ogni artista ha quindi selezionato alcuni dei propri lavori già esistenti ed esposti intorno al globo terracqueo, che meglio rappresentasse le tematiche.
Così, le storie che le donne si portano dentro sono raccontate da Alice Visentin (Torino, classe 1993) nella serie Interiority, esposta al castello di Perno. Sagome in legno dipinte da entrambi i lati, raccontano il mondo interiore di figure femminili, il mondo oltre le apparenze coltivate nel pubblico: parole, ossessioni, immagini, ne riempiono il corpo, trasformandolo in un luogo sicuro nel quale sussurrare racconti lontani nel tempo.
«Attraverso lo spettro della rappresentazione voglio esplorare i retaggi culturali e le dinamiche genealogiche» spiega Visentin. «Le storie delle bisnonne, prozie, generatrici e colonne portanti di famiglie, erano sempre sussurrate dalle nonne alle nipoti, solo a letto, in segreto, prima di addormentarsi. Le ricordo come favole più che come realtà».
Sul tema della rappresentazione si esprimono invece Haruka Sakaguchi e Griselda San Martin, riflettendo sulla pratica hollywoodiana del typecasting, ossia il selezionare gli attori per ruoli ricorrenti, ricolmi di stereotipi e discriminazioni. Le foto descrivono il ruolo classico che viene chiesto alle donne di interpretare, accanto a quello al quale, invece, aspirerebbero: attrici costrette a giocare costantemente il ruolo di Pochaontas che si immaginano Wonder woman, scolarette che sembrano uscite da un manga giapponese che si sentirebbero molto più a loro agio nei panni di un cattivo della serie horror Supernatural, asiatiche obbligate a indossare il qipao floreale tipico della cultura cinese, e che invece, vorrebbero, per una volta, giocare il ruolo del detective.
«La raffigurazione conta», spiegano le artiste, «è difficile evidenziare l’importanza di vedere qualcuno che ti assomiglia ritratto in 3D con potere e dignità. Il nostro progetto illustra la plausibilità di un futuro più equo – sia sullo schermo che nella vita reale». Infine, per la sezione dedicata alle lotte, Alfiah Rahdini (indonesiana classe 1990) ha spiegato la difficoltà ad emanciparsi dagli stereotipi con una scultura Sri Naura Paramita, esposta alla Biennale di Jakarta 2021, che raffigura una donna contemporanea, seduta su un tappetino da yoga, poggiato sopra la tradizionale base a forma di loto sulla quale solitamente si sistemano le statue buddhiste.
«Il corpo femminile, sia esso fisicamente presente o direttamente o indirettamente raffigurato da una scultura, diventa un argomento di discussione e io, anziché evitare il dibattito, lo voglio proporre in modo che si possa parlare di questo tema» conclude l’artista. Che poi, in fondo, è proprio l’obiettivo del percorso espositivo, che parte da chi siamo state per arrivare all’oggi, molto meno munifico di certezze, e portatore di riflessioni, che affida alle più giovani il compito di immaginare il domani. Sperando di ridefinire i contorni del contemporaneo, rendendolo anche a misura di donna, proprio come Wanda.