Il miglior festival di Venezia della mia giovinezza si aprì, venticinque anni fa, con il più sottovalutato ed esilarante dei film di Woody Allen, “Harry a pezzi”. “Harry a pezzi” è pieno di scene meravigliose, e io in genere cito quella in cui Judy Davis cazzia Woody Allen per aver scritto un romanzo a chiave in cui sputtana un po’ tutti (nessuna sa fare le crisi isteriche come Judy Davis diretta da Woody Allen).
Da ieri, però, penso ossessivamente a un’altra scena. La moglie di Woody Allen fa la psicanalista, e scopre che il marito l’ha tradita. Con una sua paziente.
È un litigio meraviglioso in cui Woody Allen dice cose orrende come è colpa tua, non usciamo mai, vedo solo le tue pazienti (lei riceve a casa); e Kirstie Alley gli urla adesso è colpa mia se tu non incontri altre da scoparti, lo molla lì e se ne va, poi si ricorda altri dettagli della sua orrenditudine e torna indietro a fargli nuovi pezzi di cazziatone. Il tutto mentre, sul lettino dello studio, c’è un paziente.
Scusi, continui a parlare, la sento anche da di là, dice lei al tapino che si sta lagnando del suocero e al quale poco dopo arrivano le urla della psicanalista contro il marito. (Se “Harry a pezzi” non ha fatto crollare il numero dei credenti nella psicanalisi, non so proprio cosa possa farlo).
Ultimamente sono ossessionata dagli psicologi dell’Instagram. Quella che mette gli sponsor dei vestiti sotto le diagnosi. Quella che mette le diagnosi sotto gli autoscatto in bikini. Quella che fa i meme sui pazienti che la pagano in ritardo. (Ci sono anche uomini, ma le più eclatanti che mi vengono in mente sono donne, più portate per l’esibizionismo fatturabile). Ogni volta penso: ma l’ordine questa gente non la radia? Ma chi è che va a curarsi da gente così?
Di uno psicanalista che è anche personaggio televisivo e autore di libri da classifica si dice che prenda molti più appuntamenti di quanti è in grado di mantenerne, ragione per cui se la tua seduta è di pomeriggio sai già che non durerà mai un’ora: qualunque cosa tu dica verso il quinto minuto, lui ti dirà ecco, questo è proprio il punto su cui deve riflettere fino alla prossima volta.
È un cialtrone? Forse; ma cosa sei tu, che vai a curarti la psiche da uno che hai visto alla tele?
Da ieri, penso solo ai pazienti. Da quando il marito della Ferragni ha fatto una serie di storie Instagram nella prima delle quali c’è scritto «oggi non so perché ho deciso di riascoltare la seduta fatta dallo psicologo il giorno in cui ho scoperto di avere un tumore al pancreas».
Di riascoltare? Cioè lui registra le sedute? E poi le usa tipo fiabe della buonanotte? Ma lo psicologo lo sa? C’è un minuto della giornata di questo ragazzo di cui non restino prove? Non chiedo se almeno dentro al cesso possieda un suo momento perché so già la risposta: uno dei suoi format preferiti è filmare il figlio che lo interrompe mentre è seduto sul gabinetto (chiudersi a chiave dev’essere qualcosafobico).
È da ieri che penso al paziente di “Harry a pezzi”: se fosse stato della generazione per cui è normale essere lo Zapruder di sé stessi, sai che fantastico materiale avrebbe potuto poi rivendere sull’isteria della psicanalista cornuta?
Ma poi: questa cosa della generazione è vera? Io trentenni per fortuna non ne conosco, ma vivono registrandosi perpetuamente tutti o solo il marito della Ferragni, e per questa meticolosità lui è diventato multimilionario e la più parte dei suoi coetanei no?
Poiché conosce i suoi polli, l’uomo che se ha sciocchezze da raccontare allo psicologo convoca le telecamere d’un documentario – e se invece ha da raccontargli un cancro bastano gli audio su Instagram (quando il soggetto cinematografico è forte, puoi preoccuparti meno dei carrelli) – instagramma microscopici brandelli audio di sé stesso che piange e lo psicologo che domanda cose, e lascia a noi l’interpretazione. «Voglia di condividere, manie di protagonismo, o narcisismo fine a sé stesso»: siamo autorizzati a pensare il peggio delle sue ragioni, tanto fattura comunque (ma soprattutto: tanto il cancro se lo smazza comunque lui, e ne farà un po’ quel che gli pare, comunicativamente).
È da ieri che, oltre che a “Harry a pezzi”, penso a una storia che mi hanno raccontato e che a ogni presentazione dell’Economia del sé mi riprometto di usare, poi mi dimentico.
È la storia d’una guida turistica di Pompei, un tizio indigeno che, arrivato all’affresco di Narciso, ne spiega ai turisti la leggenda. Narciso, spiega la guida, si specchiava nell’acqua, e si trovava così irresistibile, ma così irresistibile, ma così irresistibile, che finì per cascare nell’acqua e affogare e morire. Insomma, conclude la guida con almeno altrettanto irresistibile dittongo campàno, «uno sciemo totale». Almeno nel microfono del telefono non si affoga, se non metaforicamente; e che di metafore non si muore è una gran bella verità.