Secondamedismo perpetuoIl giornale del Watergate si è ridotto a occuparsi di retweet di cronisti adultescenti

Quello che è avvenuto al Washington Post è la rappresentazione della crisi della stampa americana, passata dalle grandi inchieste alle ripicche per battute innocue sui social, in una battaglia capitanata da una cronista che aveva scritto cose false in un articolo (restando al suo posto)

di Ante Hamersmit, da Unsplash

Questo sarà un articolo confuso, incompleto, e che parla di gente che non avete mai sentito nominare. Sì, persino più del solito. Questa è la storia di quel che è successo negli ultimi cinque giorni al Washington Post, costringendoci a rivalutare gli ambienti lavorativi di qui, e forse persino i giornali italiani.

È cominciato tutto con Taylor Lorenz, un nome che vi sconsiglio di memorizzare perché è una falsa protagonista: la cito all’inizio solo perché così ce la leviamo di torno subito. Lorenz è una giornalista che si occupa di tecnologia e che a marzo di quest’anno passa dal New York Times al Washington Post.

La sua prima eroica impresa è svelare l’identità della tizia che tiene un account Twitter chiamato Libs of TikTok, in cui riposta video di adepti dell’identitarismo che enunciano le loro follie. È un po’ lo stesso principio dell’ultimo monologo di Ricky Gervais: perché prendersi il disturbo di scrivere testi satirici se la realtà è lì pronta a farci ridere senza ulteriori commenti?

Comunque: Lorenz avrebbe svelato l’indirizzo di casa della tenutaria del Twitter in questione, sarebbe andata a molestare i suoi familiari, e altre cose che una volta i giornalisti d’inchiesta del Washington Post facevano per svelare illegalità presidenziali e adesso fanno per sputtanare chi riposta video buffi.

Passa un mese, e Lorenz scrive un pezzo su come gli account di YouTube a tema legale si sarebbero arricchiti col processo Depp/Heard. Nel pezzo scrive di aver chiamato Tizio e Caio per sentire la loro versione dei fatti. Tizio e Caio fanno sapere che non è vero. La Cnn si domanda come abbia fatto il Washington Post a pubblicare un articolo senza neanche verificare che le fonti fossero effettivamente fonti. Lorenz si proclama perseguitata del mese. Le piacerebbe. È un campionato molto competitivo, ed è in arrivo Felicia Sonmez.

Prima di raccontare chi sia Felicia Sonmez però – vi avevo promesso un articolo confuso – torniamo all’autunno 2017, quando il massimo scopo d’ogni giornale americano era trovare qualcuna che fosse stata stuprata da Harvey Weinstein. A una protagonista d’antico stupro, Ronan Farrow chiese come mai non avesse mai detto niente prima. La signora rispose la cosa più intelligente che abbia sentito in questi cinque anni in cui abbiamo trasformato la vittimizzazione secondaria da effetto collaterale in ambizione. Disse una cosa tipo: perché non volevo che, quando entravo in un ristorante, tutti dicessero ah, è quella stuprata da Weinstein. Nessuno voleva diventare il suo trauma, finché eravamo intelligenti (fino a cinque anni fa: sembra un secolo).

Nel 2018, dunque, Sonmez è a Pechino e passa una serata che non si sa come sia andata con un giornalista del Los Angeles Times. «Non si sa come sia andata» è la descrizione di qualunque incontro tra un uomo e una donna che finisca con denunce ma pure di qualunque incontro che non abbia conseguenze penali o reputazionali: le due parti non daranno mai la stessa versione dei fatti di nessun rapporto sentimentale o sessuale, lo sa qualunque adulto, ed è questo quello che rende le denunce sessuali un territorio perlopiù scivoloso. Non è solo «dice lui, dice lei»: è «dice lui, dice lei, com’è normale che sia anche in casi consensuali».

Fatto sta che quando arriva il caso Brett Kavanaugh (il giudice della Corte Suprema durante la valutazione del quale vengono fuori accuse di stupri giovanili) il Post dice a Sonmez che è meglio non ne scriva lei, essendo la sua posizione su quel tema da militante e non da cronista. Era diventata il suo stupro. (Oddio, stupro: Jonathan Kaiman non è mai stato denunciato e processato, solo sputtanato e reso disoccupato per una serata in cui, da sbronzo, aveva tradito la fidanzata con Sonmez, anche lei sbronza e con vaghi ricordi di, sì, aver fatto sei piani di scale per andare nell’appartamento di lui, ma mica si ricordava a che scopo).

Sonmez, non potendo scrivere di Kavanaugh, fa causa al giornale per discriminazione. La perde.

Tenete tutto a mente, vi servirà tra un po’. Sonmez, che nel frattempo continua la sua militanza (la sera in cui morì Kobe Bryant si affrettò a twittare che era uno stupratore, venne sospesa dal giornale, gli altri giornalisti protestarono, venne reintegrata), la settimana scorsa fa un tweet che i più ingenui di noi credevano fosse solo un tweet, e non il principio d’una settimana di delirio.

Dave Weigel, giornalista del WP e tra i firmatari della lettera in cui si chiedeva di non punire Sonmez per il tweet su Bryant, ritwitta una battuta. Blanda come le risate a denti stretti della Settimana Enigmistica. Faceva così: tutte le donne sono bi-, si tratta solo di capire se sessuali o polari.

Felicia twitta «Bello lavorare in un giornale in cui sono permessi certi retweet», Weigel cancella e si scusa, e la cosa in un mondo normale finirebbe lì. Ma non siamo in un mondo normale: siamo nel perpetuo secondamedismo in cui gli uffici del personale devono occuparsi di chi twitta cosa, e se vuoi far licenziare qualcuno il modo migliore per farlo è un’indagine sui suoi like. Ha messo un cuoricino a una brutta battuta, che sia decapitato.

È una settimana che la Sonmez, nonostante Weigel sia stato sospeso per un mese senza stipendio (per un retweet: lo ripeto casomai vi sfuggisse la portata del delirio), twitta centinaia di volte al giorno ponendosi come eroina contro il dilagante sessismo (tutti quelli che difendono Weigel premettono terrorizzati che comunque la battuta era d’inaccettabile sessismo: se sentissero certe battute mie, chiamerebbero il tribunale dei crimini di guerra).

È una settimana che il Washington Post manda comunicazioni interne (puntualmente rese pubbliche) esortando i suoi giornalisti a non insultarsi sui social (precetto puntualmente disatteso).

È una settimana che gli esegeti di questa vicenda si dividono.

Da una parte quelli convinti che il WP sia sotto ricatto: qualunque azione intraprendano contro la Sonmez, i suoi avvocati la useranno nell’appello (Sonmez ha perso la causa per discriminazione, e resta lì, appellante e discriminata e onnipotente e attaccata al posto fisso come neanche Zalone). Dall’altra quelli convinti che il WP le stia lasciando la corda per impiccarsi: non hanno avuto la prontezza di licenziarla quando avrebbero dovuto, e lo faranno ora, dopo averla fatta twittare isterica centinaia di volte diffamando l’azienda che la stipendia.

E poi, in un angolino, ci sono io, che mi chiedo non solo e non tanto come siano passati dal Watergate a «signora maestra, ha ritwittato una battuta che mi ferisce»; più di tutto, mi chiedo come facciano a mandare un giornale in edicola tutti i giorni, considerato che sono impegnati a bisticciare su Twitter come dei dodicenni senili.

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