Il lavoro non è soltanto un mezzo per vivere, ma anche un valore in sé, perché concorre a realizzare la nostra umanità, ci fa sentire utili alla società e agli altri. Contribuisce, dunque, a dare significato alla nostra esistenza. Pertanto, ognuno di noi desidera svolgere una professione che gli permetta di realizzarsi come persona e che, al contempo, consenta una vita dignitosa e sicura. Tuttavia, non sempre quest’ideale può essere raggiunto nella sua interezza.
Impegnarsi a occupare tutta la forza lavoro disponibile è un dovere centrale dell’azione del governo, dei dirigenti sindacali e degli imprenditori, e le “le autorità responsabili” sono preposte perché mettano mano ai provvedimenti necessari a garantire ai lavoratori la giusta retribuzione e la stabilità.
La crisi pandemica, la dinamica inflattiva e le prolungate tensioni sui mercati finanziari internazionali possono generare pesanti effetti sull’economia reale.
Da qualche settimana si sta animando un dibattito su come rinnovare la regolamentazione del mondo del lavoro: tutto questo merita una risposta responsabile da parte di tutti gli attori politici ed economici.
Il dibattito che da anni investe l’Italia è legato a un ossimoro concettuale: l’idea di coniugare l’esigenza di flessibilità imposta dal mercato con le garanzie di sicurezza dell’occupazione di ogni lavoratore.
L’ossimoro starebbe nel concetto di “flessibilità sicura”, capace di garantire competitività alle imprese e, insieme, di fornire ai lavoratori sostegni attivi e passivi. Ma siamo certi si tratti realmente di un ossimoro? O, piuttosto, questa convinzione nasce da un’errata sovrapposizione del concetto di “flessibilità” con quello di “precarietà”?
Già lo stesso giuslavorista Marco Biagi tendeva a differenziare in maniera molto chiara i due concetti, sostenendo che «un mercato del lavoro flessibile deve anche migliorare la qualità, oltre che la quantità dei posti di lavoro, rendere più fluido l’incontro tra obiettivi e desideri delle imprese e dei lavoratori e consentire ai singoli individui di cogliere le opportunità lavorative più proficue, evitando che essi rimangano intrappolati in situazioni a rischio di forte esclusione sociale». In pratica, la flessibilità si riferisce a un modo di organizzare il lavoro, la precarietà invece si riferisce all’insicurezza della vita legata e determinata dalle condizioni di lavoro.
Marco Biagi affermava anche che «i diritti dei lavoratori si conquistano prima di tutto nel mercato, ma se le regole del mercato tolgono opportunità, invece di crearne, se soffocano le iniziative imprenditoriali invece di stimolarle, se costringono all’esilio le forze migliori, allora a pagarne il prezzo più alto sono proprio i lavoratori».
Prima di valutare una nuova riforma del mercato del lavoro, sarebbe necessario mettere a fuoco alcuni temi cruciali: l’esigenza di intervenire, soprattutto, nella fase di transizione da un posto di lavoro a un altro, e quella di implementare politiche attive legate alla formazione. Bisogna lavorare su strumenti che facilitino l’integrazione tra scuola e lavoro e su stimoli attivi alla formazione continua. Bisogna sviluppare modalità di protezione e di tutela dei “nuovi lavori”.
Inoltre, non dobbiamo dimenticarci che in Italia esiste già un esempio virtuoso di flessibilità sicura: il Contratto collettivo delle Agenzie per il lavoro. In esso sono forti e predominanti i concetti di stabilizzazione del lavoratore, di tutela e sicurezza sul lavoro, di welfare (con misure di previdenza integrativa e sostegno alla maternità, di accesso al credito e di assistenza sanitaria integrativa), di formazione e di consolidamento e sviluppo delle relazioni sindacali. I principi presenti in questo Ccnl sono una risposta compiuta e concreta ai principi di flexicurity. Ed è per questo che la flessibilità portata avanti dalle Agenzie per il lavoro non può essere confusa con la precarietà.
*Andrea Zirilli è VP Sales Italy di The Adecco Group