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Mercato dinamicoI percorsi di ricollocazione dei lavoratori si dimostrano sempre più efficaci

I dati del “Report Outplacement 2021”, realizzato da Lhh, mostrano che i tempi di transizione si sono ridotti rispetto al 2020. Cristiano Pechy, ceo di Lhh Italia, spiega: «Si registra una grande richiesta di talenti, spinta dall’ accelerazione della digitalizzazione»

(Unsplash)

Nonostante l’impatto della pandemia e del conflitto in Ucraina, l’outplacement funziona sempre meglio. Il dinamismo che si rileva nel mercato del lavoro sta imprimendo, infatti, un’accelerazione ai servizi di ricollocazione professionale, facendo registrare numeri molto alti. Lo dimostrano i dati del Report Outplacement 2021 realizzato da Lhh, la società del Gruppo Adecco specializzata nell’outplacement e nei servizi per lo sviluppo di carriera. Nel 2021, il tempo medio necessario a trovare una nuova occupazione per le persone coinvolte in un percorso di ricollocazione è sceso, infatti, a 5,6 mesi, rispetto ai 6,2 del 2020. Il 20% dei candidati ha addirittura ritrovato un’occupazione in meno di tre mesi, mentre il 62% si è ricollocato entro sei mesi dalla perdita dell’occupazione precedente.

«Assistiamo a una grande richiesta di talenti da parte delle aziende: ciò favorisce le attività di ricollocazione», conferma Cristiano Pechy, ceo di Lhh Italia. «E grazie anche alla digitalizzazione i tempi si sono accorciati. Oggi la gran parte dei colloqui si svolge online. Noi, facendo formazione anche sui colloqui digitali, puntiamo a fornire ai nostri candidati gli strumenti per affrontarli al meglio».

I dati
Secondo i dati del report di Lhh, il candidato con le maggiori possibilità di ricollocarsi in un periodo di tempo limitato è un maschio fra i 40 e i 49 anni, residente nel Nord Est. Ma quasi la metà (49%) della platea che usufruisce dell’opportunità dell’outplacement è composta da donne. Quanto all’età, il 39% si inserisce nella fascia fra i 40/49 anni, il 32% è over 50% e il 25% ha fra i 30 e i 39 anni. Dati che smentiscono il luogo comune che vuole questo tipo di servizio destinato soprattutto a persone nella fase finale della propria carriera.

Variegato l’inquadramento contrattuale: se il 18% è composto da dirigenti, il gruppo più nutrito è quello degli impiegati (54%), seguito dai quadri (22%) e dagli operai (6%). A riprova del fatto che la transizione di carriera non è un servizio riservato ai soli manager, ma anzi: coinvolge soprattutto le fasce intermedie.

A guidare i servizi di ricollocazione è l’Italia settentrionale. In particolare il Nord Est, sicuramente l’area con il mercato del lavoro più dinamico, ma anche quella in cui la conoscenza del servizio è più diffusa. Seguono il Centro Sud (32%) e il Nord Ovest (13%).

I settori che più utilizzano l’outplacement sono il manufacturing, che rappresenta il 19% delle aziende coinvolte, seguito da farmaceutico (14%), retail (10%), costruzioni (10), corporate service (9%). E i ruoli maggiormente coinvolti sono quelli del commerciale/vendite (29%), del marketing (13%), della produzione (9%) della finanza e Hr (7%).

La fotografia del mercato
In tutti i settori, in maniera trasversale, il ricorso all’outplacement evidenzia la necessità di evolversi che le aziende avvertono in un momento di grande trasformazione. «Si riscontra un forte interesse, da parte delle imprese, ad acquisire personale che abbia un’attitudine verso il mondo digitale», spiega Pechy. «Con l’accelerazione imposta dal Covid, la digitalizzazione ha infatti interessato ogni settore e ogni funzione aziendale».

Alcune aziende, già avanzate dal punto di vista digitale, si sono fatte trovare pronte. Ma le altre che lo erano meno hanno dovuto «importare al loro interno le professionalità mancanti», dice Pechy, «oltre che attuare, allo stesso tempo, percorsi di upskilling e reskilling delle competenze di chi era già in organico».

Il dinamismo che si registra oggi nel mercato del lavoro è legato anche a un altro fenomeno: «Molti lavoratori hanno sofferto di burnout in seguito alla pandemia, e si sono dimessi perché avvertivano l’impellente necessità di attuare uno stacco completo rispetto all’azienda in cui lavoravano. Per poi ripartire, ma altrove».

L’attuale situazione del mercato ha quindi creato nuova domanda di lavoro nei diversi settori, generando nuova linfa e nuove opportunità di transizioni occupazionali.

Opportunità che hanno portato alcuni professionisti anche a scegliere il passaggio da un lavoro dipendente verso forme di auto imprenditorialità. Il 16% ha avviato infatti un’attività autonoma, nel 75% dei casi sotto forma di consulenza. «Si tratta», spiega Pechy, «soprattutto di persone over 50 che, per poter gestire il proprio tempo in maniera più flessibile, hanno scelto di utilizzare parte degli incentivi economici all’esodo per mettersi in proprio».

Ma ci sono ottime possibilità anche di rientrare nel mondo del lavoro con un contratto a tempo indeterminato: lo scorso anno sono riusciti ad ottenerlo il 69% dei candidati, mentre il 15% è stato assunto con contratto a termine. I dati sono molto più confortanti, soprattutto rispetto alla possibilità di firmare un contratto stabile: l’anno precedente la percentuale di chi lo aveva ottenuto era del 54%, rispetto al 23% del tempo indeterminato e al 21% della consulenza. Un segnale del fatto che in questo ultimo anno il mercato del lavoro è diventato più dinamico e sono aumentate le richieste di assunzione, soprattutto per determinati profili, da parte delle aziende.

Il valore dell’outplacement
Molto usato nei Paesi di matrice anglosassone, obbligatorio per legge in Francia e Spagna quando le aziende licenziano un dipendente, in Italia l’outplacement è ancora poco utilizzato, nonostante le enormi potenzialità e l’alta percentuale di successo.

Nel nostro Paese, i servizi di ricollocazione non sono obbligatori, ma possono essere offerti dall’azienda al dipendente nel pacchetto di incentivo all’esodo, in aggiunta all’eventuale buonuscita, per facilitare il reinserimento professionale soprattutto delle persone coinvolte in processi di riorganizzazione aziendale.

Non a caso, l’offerta di servizi di outplacement sta diventando, sempre più, uno strumento di employer branding in grado di rendere attrattive le aziende per i nuovi talenti. «Il lavoro, anni fa, era tendenzialmente “mono-azienda”: si entrava in un’azienda da giovani e si usciva quando era il momento di andare in pensione. Non era contemplata la separazione. Se questa avveniva, era ritenuta una sorta di fallimento. Oggi, invece, non è più così. La separazione è considerata il naturale termine di un progetto. In vista di una nuova partenza», dice Pechy. «Un po’ alla volta, anche in Italia si sta affermando questa consapevolezza. E il fatto di sapere, a monte, che l’azienda si occuperà eventualmente anche dell’evoluzione esterna del percorso professionale rappresenta un plus, soprattutto per incentivare i nuovi ingressi».

Si tratta anche di un’evoluzione culturale oltre che di mercato, dunque. «Viviamo la necessità di un maggiore dinamismo rispetto al passato», conclude Pechy. «E questo vale in tutte le sfere, da quella personale a quella lavorativa».

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