CasumanitudiniFenomenologia delle lagne della generazione O (come ovina)

Quelli per cui nulla esisteva prima di loro e che per essere in sintonia con i tempi si inventano stigmi, sessualità e traumi su cui basare dolenti memoir che poi diverranno serie di Netflix

Unsplash

Dobbiamo parlare della Generazione O. “O” come “ovina”. La generazione per cui nulla esisteva prima di lei, per cui nessuno è mai stato infelice come lei, per cui – risolti i bisogni primari e pure quelli secondari – la vera sfida è quella d’inventarsi sempre nuovi traumi, sempre più deliranti.

È una generazione che spazia oltre la generazione: ai ventenni puoi sperare finisca poi di formarsi il cervello, diventino normodotati, e si vergognino tantissimo delle prove della loro scemenza giovanile, per fortuna nel frattempo scomparse assieme alle piattaforme su cui erano state caricate (Instagram prima o poi morirà, diversamente dai diari di carta della mia gioventù, che ogni tanto spuntano fuori da qualche cassetto facendomi morire d’imbarazzo per la cretina che fui); il guaio è quando a cinquanta sei scema come una ventenne.

È una generazione, quella ovina, che ne include almeno tre, tra cui la mia: i peggiori adulti della storia del mondo, i peggiori genitori della storia dell’umanità; all’inseguimento di figli ai quali – invece di dare coppini ribadendo che essi è naturale e fisiologico non capiscano un cazzo di niente – diciamo che certo, loro sì che ci spiegano la vita, certo, anzi aspetta che mi sforzo d’essere scemo quanto te.

Quando vedo una ventenne che dice che non è binaria, m’intenerisco; quando vedo una quarantenne che dice che non è binaria vorrei prenderla a coppini finché non va a ripassare i mammiferi sul sussidiario.

Da giorni c’è una certa attenzione rispetto all’account TikTok di Netflix, per un video di cui poi parliamo; ma, prima, vorrei parlare d’un altro video, sempre caricato sull’account Netflix in occasione del mese del Pride (quel mese in cui, non potendo essere orgoglioso d’aver inventato il vaccino per l’Aids o il wifi, sei orgoglioso di andare a letto con quelli con cui vai a letto).

Nel video che non è una notizia, quello di cui non stanno parlando tutti, c’è una tizia coi capelli rosa che annuncia alla madre e alle amiche d’essere pansessuale. E a questo punto, abbiate pazienza, mi tocca divagare.

Avrete visto che col mese del Pride sono arrivate le bandierine. Ognuno ha la sua, ché mica il mondo poteva essere semplice, vai a letto con gli uomini, con le donne, con tutti e due, con nessuno dei due. Macché. Ogni sfumatura ha innumerevoli sottinsiemi, ognuno determinato a considerarsi speciale e meritevole d’etichetta personalizzata.

I non scopanti, per esempio (asessuali, in gergo medicalizzato), che dovrebbero essere i meno identitaristi e militanti di tutti (non si scopa soprattutto per non sobbarcarsi le annesse scocciature: se devi farne una militanza, tanto valeva la copula), essi hanno sedici (sedici) sottoinsiemi con relativa bandierina.

Sono considerati nel novero: autocorisessuali, quelli che non sentono connessione tra sé stessi e l’oggetto del loro desiderio (ai miei tempi ci chiamavano «quelli che subito dopo chiamano un taxi»); demisessuali, quelli che non provano attrazione sessuale senza un legame sentimentale (ai miei tempi: «quelli che si fermano a dormire»); e pure, con la loro brava bandierina grigia e rossa, quelli cui non va di praticare atti sessuali su altri, ma cui va di riceverne. Cioè, quelli che gli va bene se glielo ciucci, ma che proprio non ci pensano a leccartela.

Se fossimo disposti a fare gli adulti, prenderemmo da parte le nostre figlie e diremmo loro che le bandierine dello spettro delle identità asessuali sono una presa in giro, e che l’ultima è la descrizione del maschio eterosessuale medio. Ma non lo siamo, e quindi diciamo ma certo, piccina, è uno dei sedici tipi di asessualità, il tuo moroso non è affatto un egoista di struggente ordinarietà.

Quindi, nel video di Netflix, multinazionale all’inseguimento di giovani che scroccheranno l’abbonamento ai genitori, capelli rosa fa il gran annuncio. È pansessuale (ai tempi di Borotalco: «ppe’ me pò èsse bisessuale, trisessuale, quadrisesssuale, pentasessuale: so solo che da quel punto di vista è da applauso»). Un’amica le chiede se quindi ha avuto esperienze con donne.

Capelli rosa, facendomi morire di tenerezza, risponde che esperienze no, però ha avuto «crush». Crush significa cotta, ma i ventenni di oggi non sanno l’italiano né l’inglese, figuriamoci se sanno tradurre l’uno nell’altro. Dicono «crush» convinti significhi qualcosa d’intraducibile, «slur» fantasticando sia diverso da «insulti», «cringe» certi che sia ben altro da «imbarazzo».

Al di là della lingua in cui si esprime, capelli rosa veicola un concetto di cui non si rende del tutto conto (ma gli adulti di Netflix sì, e infatti sono loro che meritano il 41 bis per aver fatto di capelli rosa e delle altre un fenomeno da clic, invece di mandarle in camera loro a fare i compiti). Hai avuto esperienze? Ho avuto crush. Quindi, amore della tua mamma, non sei pansessuale: sei vergine. Vergine che si dà un tono di mondo. Assunta Patanè, ma senza un Monicelli a renderti memorabile.

E veniamo al video che ha infranto l’onda. C’è una ragazza parecchio bellina che racconta d’una ginecologa che l’ha traumatizzata costringendola a fare coming out. Alla prima visita, l’indelicata dottoressa le ha chiesto se avesse rapporti sessuali protetti. Quindi intendeva con uomini, si stranisce la piccina. Quindi ho dovuto dirle che mi piacciono le ragazze. Quindi trauma.

È molto interessante quel che succede nei commenti a quel video, e nei moltissimi repost in giro per piattaforme: nessuno le dà ragione. Quindi c’è un confine del trauma immaginario. Quindi c’è un «questo è troppo» anche per la generazione O. Quindi non vale proprio tutto.

(Il divario generazionale è quella cosa per cui le sue coetanee s’indignano perché esistono preservativi femminili e anche una lesbica deve stare attenta alle malattie e ha ragione la ginecologa, e io penso che sono proprio una cariatide: ai miei tempi «protetti» significava dalle gravidanze ben prima che dalle altre malattie).

La ragazzina bellina che voleva solidarietà nella sua indignazione contro la ginecologa raccoglie più «ma cosa dici, ma non sai niente» dell’adulta che – ventotto anni dopo Prozac Nation, cinquantacinque anni dopo La valle delle bambole, trentanove anni dopo Valium di Vasco Rossi – loda il proprio stesso coraggio nel dire che ha preso tre gocce di Lexotan con tutto lo stigma verso gli psicofarmaci che c’è in giro (ma che invidia che ti facciano qualcosa tre gocce, vuol dire che di solito ti curi con l’omeopatia o con le tisane di malva).

La ragazzina bellina e biondina raccoglie più accuse di falsificare la realtà della poetessa che, in interviste in cui nessun intervistatore la contraddice, dice che l’endometriosi non è una malattia riconosciuta dal servizio sanitario nazionale (l’endometriosi, che era persino tra le fragilità per cui potevi vaccinarti in anticipo dal Covid), e quindi c’è uno stigma (parola del semestre). Alla poetessa nessuna adulta dice «ti avrei voluta vedere ad avere l’endometriosi negli anni Ottanta, quando ti dicevano: quante storie, pigliati un Moment». Nessuna obietta, perché nessuna vuole non essere in sintonia con lo spirito del tempo.

Per esserlo, inventiamo stigmi, inventiamo sessualità, inventiamo oscurantismi, inventiamo traumi: fino a quello della biondina, misteriosa eccezione, valevano tutti. La risposta alle molte domande «ma che ci fa questa sull’account di Netflix» nei commenti alla biondina forse è questa: non sapendo inventare invenzioni che valgano il Nobel, inventiamo casumanitudini sulle quali basare dolenti memoir che poi diverranno serie di Netflix.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter