Un’imposta su rutti e flatulenze. No, non è una proposta di qualche nobile in fissa con il galateo. Ma la misura introdotta recentemente dalla Nuova Zelanda per incentivare gli allevatori ad essere meno impattanti a livello climatico.
Il governo guidato dalla premier laburista Jacinda Ardern ha annunciato l’istituzione di un’imposta sui gas intestinali dei bovini e delle pecore. L’85% delle emissioni di metano nel Paese sono dovute proprio alle “emissioni” di questi animali. Un dato che non deve stupire se si pensa che i neozelandesi sono circa 5 milioni, mentre i bovini e le pecore rispettivamente 10 e 26 milioni. Inoltre, la metà delle emissioni inquinanti del Paese è dovuta ad attività agricole.
La misura – parte integrante dell’Emissions reduction plan – è stata quindi una scelta quasi obbligata per l’esecutivo neozelandese, che si è posto il 2050 come data ultima per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni inquinanti. E così, mentre la politica locale si occupa di definire i dettagli dell’imposta che entrerà in vigore nel 2025, nel resto del mondo il tema torna attuale anche a livello mediatico. Perché se è vero che la Nuova Zelanda è un caso estremo (è il primo Stato al mondo a introdurre questo tipo di tassa) quello flatulenze bovine è un tema che riguarda tutti i continenti.
Secondo i dati pubblicati nel 2020 da un articolo del New York Times, «se fossero un Paese, le mucche sarebbero al sesto posto per emissioni al mondo davanti a Stati come la Germania e il Brasile». L’apparato digerente del bestiame produce infatti il metano che, dopo il diossido di carbonio, è considerato il principale gas serra responsabile del riscaldamento globale.
La crescita degli allevamenti intensivi avvenuta negli ultimi vent’anni ha innalzato del 9% le emissioni di metano, e non a caso i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) denunciano come il bestiame sia responsabile per il 10% dell’immissione a livello globale di gas serra nell’atmosfera. Un impatto così consistente da essere misurabile anche dallo spazio. Nel febbraio di quest’anno, i satelliti ad alta risoluzione della società di dati ambientali GHGSat (Global emissions monitoring) hanno infatti scoperto come le emissioni di un singolo stabilimento californiano fossero in grado di soddisfare il fabbisogno energetico annuale di oltre 1.500 abitazioni.
Il problema, insomma, è serio. Ed è stato posto anche a livello europeo. Nel 2015 la Commissione Ue aveva proposto un piano per intervenire sulle flatulenze e i rutti bovini. La notizia aveva scatenato le proteste degli agricoltori e dei sovranisti, anche italiani. Il quotidiano Libero, ad esempio, titolò «tappare il culo alle mucche, l’ultima follia di Bruxelles».
Alla fine la proposta fu bocciata dagli stessi Stati europei, tra la rabbia degli ambientalisti che accusarono i governi di essere succubi delle lobby degli allevamenti intensivi. La questione ha attirato l’attenzione di policymaker e studiosi anche in Italia. Due studiosi dell’Università di Siena – Simone Bastianoni e Dario Caro – hanno scoperto che il 74% delle emissioni di gas serra prodotto dagli animali è causato dai bovini. Dal 2015, la situazione in Europa non è certo migliorata. Anzi. Come denunciato da Greenpeace, gli allevamenti sono causa del 17% dell’inquinamento atmosferico europeo.
In totale, secondo elaborazioni sui dati delle Nazioni Unite, gli allevamenti europei producono annualmente l’equivalente di 704 milioni di tonnellate di Co2. Più di tutte le macchine e i van che circolano per le strade del continente. Il direttore per le politiche agricole di Greenpeace Eu, Marco Contiero, ha invitato i governi a intervenire perché «gli animali non smetteranno di ruttare ed emettere flatulenze da soli». Secondo Contiero, l’unica soluzione per le istituzioni europee è iniziare a ridurre il numero di animali allevati.
Nel frattempo la Commissione europea ha iniziato a muoversi, e nel gennaio dell’anno scorso ha fatto sapere di essere pronta a creare dei sussidi per gli allevatori che ridurranno l’emissione di gas inquinanti del loro bestiame. Anche nel resto del mondo si cerca di correre ai ripari. La start-up australiana FutureFeed ha iniziato a sperimentare l’introduzione dell’Asparagopsis, una particolare alga rossa, nella dieta del bestiame.
Secondo i ricercatori dell’azienda, l’Asparagopsis riduce «quasi a zero» il metano nei rutti e nelle flatulenze bovine. Anche l’azienda svizzera Mootral ha sviluppato una dieta – caratterizzata da una rilevante presenza d’aglio – nella speranza di aiutare le mucche a ridurre rutti e flatulenze impattanti sull’ambiente. Nel frattempo, nel febbraio di quest’anno, il Comitato permanente per le piante, gli animali, gli alimenti e i mangimi (ScoPAFF), che riunisce i rappresentanti degli Stati membri dell’Unione europea, ha approvato l’uso del “Bovaer”, un additivo per mangimi sviluppato dall’azienda chimica olandese Dsm.
Il prodotto mira a sopprimere l’enzima che innesca la produzione di metano nel rumine delle mucche. Secondo Dsm, l’additivo riduce le emissioni enteriche di metano di circa il 30% per le vacche da latte e fino al 90% per le vacche da carne. Gli strumenti sono tanti: tasse, additivi e diete. L’obiettivo resta uno: evitare di mandare il clima in vacca.