La pace ingiustaLa solitudine di Draghi e l’improvvisa oscillazione di Letta sull’Ucraina

Il segretario del Pd ha detto una frase ambigua sulla fine della guerra, subito dopo spiegata meglio. Ma non è così ingenuo da non sapere di aver servito un assist a Salvini e Conte che vogliono limitare il sostegno del nostro governo a Kiev

Sabato, per qualche ora, è sembrato che pure il politico italiano che, Draghi a parte, ha finora tenuto la posizione più seria e responsabile sulla guerra, cioè Enrico Letta, si fosse affiancato a Salvini e messo a lavorare per Putin, impegnandosi a propiziare una pace che paghi alla Russia e addebiti all’Ucraina quello che l’avvelenatore del Cremlino ritiene il prezzo giusto per la fine dei massacri: il riconoscimento del diritto dei russi sui territori occupati, la neutralizzazione militare dell’Ucraina, la fine delle sanzioni contro Mosca.

Durante un evento elettorale nelle Marche e poi davanti alle telecamere dei tg Letta ha detto: «Una pace non completamente giusta è più giusta della continuazione della guerra». 

È una frase dolente, pronunciata dall’ex presidente bosniaco Alija Izetbegović, quando firmò l’accordo di Dayton del 1995 che pose fine alla guerra salvaguardando formalmente l’unità statale della Bosnia Erzegovina, attraverso l’istituzione di due realtà territoriali interne, quasi indipendenti e a base etnica e l’assegnazione del controllo della metà del territorio dello stato alla Repubblica Srpska guidata dall’efferato Radovan Karadžić, che sarebbe stato in seguito condannato per crimini di guerra e genocidio. 

Ma una frase del genere, pronunciata non dal leader di un popolo oggetto di una campagna genocidaria e costretto, per assenza di alternative, ad accettare una pace ingiusta, ma da un importante dirigente politico di un paese impegnato a fare in modo che all’Ucraina sia risparmiata la resa a Mosca, non poteva che suonare in modo equivoco e rappresentare, per chi ha orecchie per intendere, un riposizionamento del Partito Democratico, in vista del voto parlamentare del prossimo 21 giugno, su di una linea più conciliante con le istanze, per così dire, pacifiste di Giuseppe Conte e di Matteo Salvini. Istanze, peraltro, che anche nel Pd hanno autorevoli sostenitori e che finora Letta aveva tenuto ai margini, schierando il partito sulla posizione dettata dal capo dell’esecutivo.

Di fronte a questa interpretazione, non malevola, ma addirittura scontata, Letta è poi nuovamente intervenuto per evitare malintesi, ammettendo di avere «sintetizzato eccessivamente la frase del leader bosniaco Izetbegovic» (non l’aveva sintetizzata male, l’aveva usata malissimo) e ribadendo che per il PD non c’è «nessun cambio di linea sul no a Putin e sul sostegno all’Ucraina».

Letta non è così ingenuo da non sapere che una frase del genere è, più o meno, proprio quel che Conte, Salvini e l’assortito pacifismo rosso-bruno vorrebbero scrivere nella risoluzione parlamentare di impegni al Governo in vista del prossimo vertice europeo. D’altra parte a Letta non può sfuggire che, nella strategia putiniana, l’accomodamento di una pace locale serve alla prosecuzione di un conflitto globale e l’eventuale precedente ucraino non sazierebbe gli appetiti espansionistici di Mosca, ma legittimerebbe nuove e minacciose pretese sul riconoscimento di una più vasta area di influenza.

Se le oscillazioni di Letta non significano – e non significano – che è d’accordo con Salvini e Conte, significano che neppure il PD regge una posizione netta come quella di Draghi. E lo si vedrà nella risoluzione che sarà votata tra una quindicina di giorni in Parlamento, in cui – si accettano scommesse – saranno taciuti, cioè convenientemente sbianchettati, i tre principali capisaldi della posizione ripetutamente espressa dal presidente del Consiglio a proposito della guerra di Putin: l’incondizionato sostegno finanziario e militare all’Ucraina come condizione indispensabile per giungere a una trattativa che non sia una resa; l’impegno a isolare politicamente ed economicamente la Russia per tutta la durata della guerra di aggressione; il riconoscimento immediato per l’Ucraina dello status di candidato all’adesione all’Ue.

Draghi è solo e l’isolamento politico di un esecutivo che, a differenza di altri in Europa, non ha oscillato in questi cento giorni tra la nuova solidarietà con l’Ucraina e l’antica connivenza con la Russia, è una notizia decisamente brutta e potenzialmente bruttissima.

 

X