Più volte durante il resto delle sei ore mi sentii schiacciata dal peso di ciò che stavo facendo. Non riuscivo a credere che avessi preso la decisione di defezionare, che stavo rischiando la vita e di non rivedere più i miei genitori e mio fratello. Tuttavia, non ho mai pensato di tornare indietro. Dove sarei tornata? In casa mia dove a fatica riuscivo a pagare il riscaldamento? A un lavoro senza prospettive, per farmi trattare come se non avessi mai fatto nulla per il mio paese? Incontro a un futuro che non esisteva? Non equivaleva a morire?
Ci furono vari momenti in cui non credetti alle indicazioni della nostra guida. Diceva: «Se non teniamo la sinistra» finiremo un’altra volta in Romania. Tenete la sinistra, che razza di indicazione era? Volevo vedere una bussola, una cartina o qualcos’altro. Tuttavia non c’era altro da fare nell’oscurità che seguire quel tipo e sperare che sapesse dove stesse andando. Ci disse che dopo aver attraversato cinque metri di terra sporca e nera ci saremmo ritrovati nei pressi della frontiera. Attraversammo tanto sporco, ma nessun confine. È tutto così stupido, ricordo di aver pensato. Finirò ammazzata e tutto per seguire un tipo che non ha il senso dell’orientamento. Tuttavia non dissi nulla, nessuno poteva rompere il silenzio e parlare. Mi concentravo unicamente per evitare che mi battessero i denti.
Ci sono molti luoghi non recintati lungo il confine e liberi da guardie. Un paese non può controllare ogni centimetro quadrato del proprio confine. Avremmo dovuto attraversare la frontiera con l’Ungheria in uno di quei varchi. Così la nostra guida ci avrebbe portati fino alla strada dove ad attenderci con una macchina ci sarebbe stato Constantin. Ma non trovammo mai il punto esatto dove saremmo dovuti passare. Non trovavamo la strada, figuriamoci Constantin! Non ci rendemmo nemmeno conto di aver attraversato la frontiera ungherese, finché non scorgemmo una targa con un lungo nome e tante zeta ed esse. Certamente non si trattava di un nome rumeno. Il nostro gruppo inzaccherato camminava, camminava e camminava, dritto verso due agenti di polizia. Constantin ci disse che, una volta in Ungheria, se avessimo incontrato la polizia dovevamo dire l’unica parola che ci aveva insegnato, ovvero hello. Il fatto è che le guardie vollero andare ben oltre il nostro hello, cominciarono a fare domande e noi li guardavamo come idioti. In più, era abbastanza sospetto vedere un gruppo di sette individui camminare in una strada deserta alle due di notte. Dove diavolo stavamo andando? Le guardie ci chiesero di seguirli. Ci misero in una macchina e ci portarono al commissariato di polizia ungherese. Nel tragitto non volava una mosca. Non perché non potessimo parlare, ma perché eravamo ammutoliti dal terrore. Ciascuno di noi veniva interrogato separatamente.
Quando la polizia vide i miei documenti, mi offrirono immediatamente ospitalità in Ungheria. Ero una ginnasta famosa quindi, ai loro occhi, una bella preda. Quando ripenso oggi a quel momento mi domando perché valessi tanto per loro. La mia carriera era finita e sebbene fossi considerata un’allenatrice molto brava, cos’altro potevo dare all’Ungheria? Anche ad altri due del nostro gruppo venne offerto asilo. Agli altri invece venne detto che sarebbero dovuti rientrare il giorno dopo in Romania. Scoppiarono a piangere. «Ascoltate» dissi alla polizia «rimango solo a condizione che nel vostro paese possa restare l’intero gruppo.» Queste parole uscirono dalla mia bocca prima ancora che potessi soppesare davvero la situazione. La ginnastica mi ha insegnato a fare squadra, in questo caso la mia squadra era composta dai miei compagni di defezione. Ho solo pensato che non fosse giusto. Avevamo corso tutti gli stessi pericoli e attraversato il confine, dovevamo poter rimanere tutti. «Siamo arrivati insieme e insieme resteremo» dichiarai. Con mia totale sorpresa la polizia acconsentì. Non solo, ma a tutti offrirono una sistemazione in hotel per una settimana, finché non ci saremmo ripresi, buoni pasto e persino un aiuto per trovare lavoro. Sapevo che non saremmo rimasti in Ungheria, ma accettammo questa cortesia dal governo, poiché eravamo stremati dal freddo, affamati e avevamo un disperato bisogno di dormire.
Nel frattempo Constantin, vedendo che il piano era andato storto, ci intercettò un attimo prima che lasciassimo la stazione di polizia, disse ai poliziotti che ci avrebbe portato lui in albergo. Tuttavia, ne scelse un altro. Sapeva che i media e la polizia ci avrebbero trovati presto e voleva darci un po’ di tempo extra per riflettere sulla prossima mossa.
Vedi, amica mia, l’Ungheria non era la nostra destinazione finale. Era troppo vicina alla Romania. Decidemmo tutti assieme di provare a varcare il confine con l’Austria e di chiedere asilo lì.
Passammo una notte insonne, tutti ammassati in una stanza. Al mattino seguente, notai la mia foto sulla prima pagina di un giornale, ma non potevo capire cosa dicesse l’articolo. Sebbene non avessi bisogno di leggere, era abbastanza chiaro che ero già «ricercata» in Romania. Vai avanti, mi dissi, se non vuoi che la logica antidefezione comporti la tua riconsegna da parte degli ungheresi alla Romania. Più tardi quel mattino, il gruppo si divise in due macchine. Constantin ne guidava una e il suo amico l’altra. Eravamo diretti verso la frontiera con l’Austria.
C’erano sei ore di macchina per arrivare al confine austriaco. Nessuno stava seguendo né tenendo d’occhio le nostre macchine. Eravamo un passo avanti agli ungheresi e ai rumeni. Alla frontiera, gli austriaci fermavano le macchine a campione, per controllare i documenti. Constantin decise di lasciarci in un bar mentre avrebbe passato il confine per vedere se veniva fermato.
Al suo ritorno ci disse che era stato fermato e che sarebbe stato troppo rischioso tentare di passare con noi a bordo. Avremmo attraversato il confine da un’altra parte, di notte.
Che posso dire di quel momento? Semplicemente vai avanti e provaci. L’idea di passare un’altra notte nel tentativo di attraversare un confine non era il massimo, ma che altro potevo fare? Constantin ci disse che ci avrebbe atteso ancora una volta oltre il confine. Dovevo credergli, perché non c’erano alternative.
In ginnastica, potevo in qualche misura avere il controllo delle cose, se facevo bene venivo premiata, con l’apprezzamento del mio paese. Ma la vita era un’altra storia e il processo disumanizzante in Romania, nonché i pericoli e le incertezze della defezione mi dimostravano quanto fosse irrisorio il controllo che avevo sulle circostanze della mia vita.
Constantin ci disse dove attraversare la frontiera. Aspettammo il buio per essere pronti e iniziare a camminare. Ero più impaurita della prima volta, forse perché ero a un passo dal mio obiettivo e mancarlo ora sarebbe stato ancora più devastante che l’essere catturati in Romania. Rimani tranquilla, dicevo a me stessa. Concentrati sulla respirazione, sul silenzio e non perderti. Concentrati nel rimanere vigile. C’erano sette reticolati di filo spinato da superare e benché io non ricordi di aver sentito graffiare, il mio corpo si ricoprì di tagli da punte metalliche affilate. Sono incredibilmente coordinata ma è impossibile non restare feriti attraversando del filo spinato. La maggior parte del gruppo era coperto di sangue. Ci vollero circa due ore per superare tutti quei reticolati. Ero stravolta quando raggiungemmo la strada dove avrebbe dovuto raccoglierci Constantin. Ci aveva istruito a restare nascosti poiché sarebbero potute transitare macchine della polizia. Constantin disse che aveva progettato di rompere un faro in ognuna delle macchine, affinché potessimo capire quando uscire dal nascondiglio.
Sdraiati a pancia sotto, nascosti nell’erba, guardavamo ogni macchina che passava, attenti a quella con un faro rotto. Quando ne vedemmo due in fila con un solo faro, saltammo in piedi e ci infilammo nelle macchine. Quella notte, dormimmo tutti sul pavimento in un’unica stanza d’albergo. L’atmosfera in quella stanza, però, non poteva essere più diversa da quella dell’albergo in Ungheria. Finalmente stavamo festeggiando. C’era un’aria di sollievo generale e di gioia piena. Una volta in Austria, tutti tranne me andarono per i fatti loro. La maggior parte del gruppo andò in rifugi per senzatetto. Veniva dato loro un posto dove stare e dormire, in attesa che venisse qualcuno a offrire un lavoro. Una volta ottenuto un lavoro, con un garante, potevano fare richiesta al governo per ottenere la cittadinanza. Ero grata di non trovarmi da sola in un paese straniero di cui non conoscevo la lingua.
Da “Lettera a una giovane ginnasta”, di Nadia Comăneci, Il Saggiatore, 2022, pagine 224, euro 21