Ma che sorpresaIl Pd rischia di raccogliere quello che ha seminato nel suo «campo largo» (e non è niente di buono)

Il definitivo sgonfiamento della bolla grillina certificato dalle amministrative trova il partito che sulla carta avrebbe dovuto beneficiarne maggiormente nella posizione più complicata, ed è tutta colpa sua

di Johnny Goerend, da unsplash

Ieri mattina ho passato alcuni minuti contemplando l’apertura di Repubblica, a tutta pagina, dedicata ai risultati delle elezioni amministrative: «Crollo di Salvini e M5s». Molti pensieri si sono accavallati nella mia mente in quei piacevoli istanti, ma per prima cosa mi sono domandato se Linkiesta non avrebbe dovuto fare come Robert Conquest quando propose di titolare la nuova edizione aggiornata al 1990 del suo libro sui crimini dello stalinismo con un asciutto: «Ve l’avevo detto, razza di idioti» (il titolo originale era “The Harvest of Sorrow” ed era dedicato, per essere precisi, allo sterminio degli ucraini attraverso la carestia forzata – niente di nuovo, insomma).

La seconda cosa che ho pensato è quanta acqua è passata sotto i ponti dall’inizio della legislatura, da quando cioè il centrodestra guidato da Matteo Salvini e il Movimento 5 stelle guidato da Luigi Di Maio sembravano avere in pugno l’Italia, rappresentando in parlamento una maggioranza populista vicina al 70 per cento, che avrebbe potuto stravolgere a piacimento la stessa Costituzione. Intendo: persino di più e peggio di come ha fatto, da ultimo anche con l’imperdonabile complicità del Pd, sul taglio dei parlamentari. E insomma, chi l’avrebbe mai detto? (Certo che è una domanda retorica).

La terza cosa che ho pensato è quanto tempo è stato buttato, dal 2019 in avanti, nell’inseguire Giuseppe Conte, accreditandolo addirittura come leader di tutti i progressisti. Una manovra che per qualche tempo ha seriamente minacciato di consegnare l’Italia al futuro distopico di un bipopulismo perfetto, tra un centrodestra guidato da Salvini e un centrosinistra guidato da Conte. Cioè esattamente quello che ci aspettava se all’indomani della caduta del governo giallorosso, dopo il fallimento dell’operazione Ciampolillo, si fosse davvero andati a votare, come chiedevano implicitamente gli indimenticabili e involontariamente autoironici manifesti del Partito democratico – «Il Pd ha una sola parola ed esprime un nome come possibile guida di un nuovo governo di cambiamento. Quello di Giuseppe Conte» – un minuto prima di votare la fiducia al governo guidato da Mario Draghi.

Fino a oggi l’argomento preferito dai sostenitori di questa tesi è stato una sorta di causa di forza maggiore: l’alleanza con Conte come unico possibile argine a una vittoria di Salvini, sorvolando sul fatto che proprio Conte era stato fino al giorno prima il presidente del Consiglio che aveva controfirmato con entusiasmo tutte le leggi volute da Salvini, per non parlare di come il suo Movimento 5 stelle aveva fatto a gara con la Lega nel contendersi il merito delle scelte più disumane, dai porti chiusi in faccia ai naufraghi (vedi le vanterie dell’allora ministro dei Trasporti Danilo Toninelli) alla crociata contro le ong (vedi gli emendamenti grillini al decreto sicurezza per inasprire le sanzioni contro chi salvava vite in mare).

D’altra parte, che non fosse affatto una dolorosa necessità, ma una scelta premeditata e desiderata, era evidente a tutti sin dall’inizio: se l’alternativa alla vittoria di Salvini fosse stata, faccio per dire, un partito guidato da Matteo Renzi, fosse pure arrivato al 40 per cento, altro che alleanze, avrebbero fatto di tutto per demolirlo, e pazienza se questo avrebbe spianato la strada alla destra. Ma certo, la storia non si fa con i se. Infatti è esattamente quello che è accaduto nella scorsa legislatura.

Date queste premesse, l’unica esilissima speranza di potere almeno cominciare a ricostruire un sistema politico decente è affidata al ritorno a una vera legge proporzionale, che cancelli l’obbrobrio delle coalizioni pre-elettorali, non per caso sconosciuto a qualsiasi democrazia occidentale. Avere boicottato questo esito quando era a portata di mano resterà senza dubbio la principale responsabilità di Renzi e del suo partito (a conferma della tesi, è forse l’unica cosa al mondo di cui nessuno lo rimproveri). Le residue speranze di farcela, ora, sono affidate al fatto che Salvini si renda conto dell’ovvio, e cioè che il suo ruolo nel centrodestra di domani è paragonabile a quello che attende Conte nel centrosinistra. Vista la lucidità di cui ha dato prova negli ultimi tempi il leader della Lega, c’è poco da stare allegri.

È quindi verosimile che al Partito democratico toccherà raccogliere quello che ha seminato in questi anni nel suo famoso «campo largo», tra un alleato populista costantemente gonfiato dai sondaggi che a ogni tornata elettorale dimezza i voti (cioè l’unica cosa buona che avrebbe dovuto portare), e un non-alleato centrista in crescita, ma sempre più lontano. Se anche a Enrico Letta riuscisse di metterli insieme, difficilmente potrà cavarne granché, in una coalizione che finirebbe per tenere dentro tutto e il contrario di tutto: dai sostenitori della decrescita felice che vorrebbero sostituire l’Ilva con un po’ di ristorantini bio, salvo poi gridare allo scandalo perché i salari italiani sono tra i più bassi dell’Occidente, e i fautori della crescita infelice che in un contesto simile vorrebbero abrogare il reddito di cittadinanza via referendum, perché farebbe concorrenza ai suddetti salari (che sarebbe semmai il principale motivo per tenerlo). Per non parlare della politica estera, che per ovvie ragioni non è più, purtroppo, un tema secondario nella definizione di un’alleanza politica.

Di conseguenza, ripensandoci, forse per questo articolo va bene anche il titolo con cui il libro di Conquest è stato effettivamente pubblicato: «Raccolto di dolore».

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