Quali che siano le loro posizioni sulla guerra, non si può dire che i grandi nomi del giornalismo italiano perdano mai di vista la scala delle priorità. Che siano infatti fermamente schierati in favore dell’Ucraina, come Furio Colombo, o invece quotidianamente impegnati dalla parte opposta, come Michele Santoro, o anche capaci di svariare su entrambe le fasce, come Massimo Giannini, è rassicurante verificare ogni giorno come vi sia ancora qualcosa che li unisca tutti, al di sopra di ogni divisione di parte.
Prendete Santoro, che in un’intervista alla Stampa ieri si è mostrato indignato perché i telegiornali «vedono le cose come le vede il governo ucraino». Forse perché parlano di «guerra» invece che di «operazione speciale» (chissà qual è l’altro modo di «vedere» i bombardamenti, le deportazioni dei civili, le torture e le esecuzioni sommarie).
Santoro glissa peraltro sul fatto che nove decimi dei talk show italiani sono pieni a tutte le ore del giorno e della notte proprio del punto di vista del Cremlino, spesso rappresentato da propagandisti russi regolarmente stipendiati dal governo o da società controllate. Lo dimostra banalmente il fatto che giornali e televisioni di ogni angolo del pianeta, dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Germania alla Finlandia, guarda un po’, da settimane s’interrogano sull’incredibile capacità di penetrazione della propaganda russa nelle tv italiane. Articoli e servizi sulla Cnn o le Monde a proposito del problema dei telegiornali troppo filo-ucraini denunciato da Santoro, invece, non se ne sono visti. Chissà perché.
In compenso, alla domanda «lei come racconterebbe la guerra?», il padre di Samarcanda risponde testualmente: «È significativo che io non abbia una trasmissione, nonostante migliaia di persone scrivano sui social che mi vorrebbero in tv». E così siamo finalmente arrivati al punto.
No, non mi riferisco al fatto che questi troll russi stanno cominciando a giocare pesante con la disinformazione online (deduzione lecita, dalle parole del conduttore, ma non decisiva); mi riferisco all’unica cosa che evidentemente sta davvero a cuore all’intervistato, all’unica passione così accecante da spiegare l’incredibile sequela di non sequitur di cui è costellata la sua intervista (tipo «senza le armi americane gli ucraini avrebbero scelto altri modi di combattere e non saremmo arrivati alla distruzione dell’Ucraina», subito dopo essersi detto contrario a inviare armi perché «ci sono già gli americani a farlo»). Quale sia quest’unica passione, che del resto lo accomuna a tanti illustri colleghi, anche di idee diverse, non credo ci sia bisogno di dirlo. Lo dicono fin troppo chiaramente loro.
Naturalmente ognuno ha il suo stile e le sue ragioni. La citazione delle parole «semplici e perfette» pronunciate due mesi prima da Mario Draghi con cui ieri il direttore della Stampa cominciava il suo editoriale – «Esprimo la mia solidarietà a tutti i giornalisti de La Stampa e al suo direttore» – si poteva giustificare comunque con un dato di cronaca: la singolarissima vicenda dell’attacco al giornale da parte dell’ambasciatore russo, in particolare per un articolo di Domenico Quirico, invero tutt’altro che ostile, culminata in una surreale denuncia per «apologia di reato e istigazione a delinquere» che la procura di Torino ha ovviamente archiviato (questa la notizia, diciamo così).
Ben altro livello raggiungeva invece l’articolo di Furio Colombo su Repubblica. Impropriamente titolato sulla realpolitik, Kissinger e la guerra in Ucraina, il commento era in pratica un soliloquio di 5253 caratteri spazi inclusi dedicato per nove decimi ai personali ricordi dell’estensore. Un articolo in cui le parole «Ucraina» e «ucraini» comparivano una sola volta, al terzultimo capoverso (fondamentalmente per formulare la non rivoluzionaria tesi che Henry Kissinger sia un realista e non sia «arruolabile» da nessuno).
Tutto il resto era una nostalgica rievocazione di un «Harvard International Seminar» cui parteciparono, pensate un po’, solo tre italiani: Alberto Arbasino, Raffaele La Capria e Colombo medesimo. E giù venti e passa righe su quanto Kissinger tenesse alla qualifica di «Doctor», per arrivare finalmente al cuore del discorso.
Questo: «Kissinger è orgoglioso ma non vanesio. Quando per esempio è accaduto che, nel mezzo di una conversazione lui mi chiamasse “Furio” (con buona pronuncia italianizzata, a differenza di quasi tutti i nuovi amici americani) subito dopo, quando è toccato a me dire “Doctor Kissinger”, lui mi ha fermato ingiungendomi No, please, call me Henry. E da allora, per decenni – anche quando dissentiva con forza da tutto ciò che scrivevo sulla guerra nel Vietnam – siamo rimasti a quel rito amichevole (molto importante nella vita sociale americana) del primo nome».
Se penso a quante ironie si sono fatte a suo tempo su Massimo D’Alema, dopo che in un’intervista aveva raccontato di salutare al telefono la segretaria di Stato americana Condoleezza Rice con un confidenziale «bye bye Condy», direi che questi quindici anni non sono passati invano. Com’era prevedibile, la gara dell’egolatria tra politici e giornalisti è stata stravinta dai nostri colleghi.
Possono cambiare i governi, le guerre e le alleanze internazionali, ma mai apparirà nella storia una crisi umanitaria o un conflitto planetario tanto drammatico da non poter fare degnamente da sfondo alle nostre rievocazioni compiaciute e alle nostre rivendicazioni stizzite, per ricordare al mondo chi siamo e cosa vogliamo, si tratti di un trattato di pace o di una trasmissione televisiva.