L’analfabetizzazione politica dell’Italia trova regolare conferma e rinforzo nel commento dei risultati elettorali e nelle analisi, che i sopracciò della pubblica opinione profondono per spiegare chi ha vinto e chi ha perso e perché.
Ora poi che i sondaggi accompagnano e anticipano con relativa precisione gli esiti del voto, quale che sia l’elezione in gioco, è il tono di una siffatta, chiamiamola così, informazione a fare la musica della politica. Il sorpasso di Meloni a Salvini era stato celebrato e spiegato ben prima che trovasse nelle urne un crisma ufficiale. Il crollo del M5S era stato annunciato e politicamente metabolizzato, ben prima che Conte si presentasse davanti ai cronisti per dichiararsene insoddisfatto, ma fiducioso nel futuro.
Dacché l’informazione è diventata, per ragioni non del tutto rimediabili, mera comunicazione, la confusione dei ruoli tra chi sta da una parte e dall’altra della telecamera, del microfono o del taccuino è diventata una regola con pochissime eccezioni e tra le parole dei giornalisti e quelle dei politici è sempre più difficile capire dove stia l’uovo e dove la gallina.
Il fatto rilevante, in ogni caso, è che tutti questi commenti e analisi, in genere, non raccontano alcun fatto e non spiegano alcun perché politico, ma ne registrano e ne interpretano i numeri secondo cabale arbitrarie ovvero ne rendono una rappresentazione, che andrebbe bene anche per un combattimento tra galli o tra cani, per un incontro di boxe, per una rissa di strada.
Vogliamo credere che Meloni abbia sorpassato Salvini perché più seria, moderata e atlantista, meno compromessa con il regime putiniano e più affidabile per gli imprenditori del Nord, interessati a una leadership efficientista? Vogliamo pensare che gli elettori oggi puniscano il M5S per la delusione della rivoluzione promessa e mancata e riversino la propria ansia di pulizia e di rigore su nuovi e più vergini vendicatori? Vogliamo convincerci che se allo Zen o a Brancaccio trionfava Orlando era in corso una rivoluzione civile e ora che stravince Lagalla è perché la mafia ha messo le mani sulla città? (Tra parentesi: quando le aveva tolte?) Vogliamo divertirci e magari pure rallegrarci del successo di impresentabili masanielli, come Cateno De Luca, a scorno dell’impresentabilità della politica?
Certo che lo vogliamo, così evitiamo di fare i conti con una realtà ben più irrefutabile e magari pure irreversibile, quella di una democrazia ridotta a ordalia o a liturgia del sacrificio votivo di qualche capro espiatorio da scannare per placare l’ira degli dei, esplosa nei mugugni del popolo orante.
Certo che vogliamo accontentarci del pallottoliere che conta i voti che vanno e vengono o della clessidra che scandisce il tempo della vita di questo e della morte di quest’altro e della caducità di tutti, persuadendoci di avere inteso chissà quale legge della storia. Così evitiamo di guardare il fondo dell’abisso di una politica prostituita all’antipolitica, all’inimicizia e all’invidia sociale, alla legittimazione del pregiudizio e alla recriminazione del torto, alla proclamazione dell’innocenza collettiva e all’imputazione delle colpe individuali, all’esorcismo liberatorio e all’acclamazione di re taumaturghi capaci di guarire miracolosamente le scrofole della storia patria.
A forza di invocare e propiziare la rovina dei politici e la rottamazione della Casta, ora dovremmo fare i conti con la fine della politica e con la sua trasformazione in dispositivo di alienazione civile e di autodistruzione sociale, cioè esattamente nel contrario di quella “cosa” inventata nella polis del V secolo avanti Cristo. Parlare dei risultati elettorali – di quanto sale quello e scende quell’altro – senza parlare di questo è solo un disperato tentativo di rimozione o di dissociazione dal disastro che abbiamo combinato.