È lunga e imponente la sua ombra. Un’ombra a colori che percorre l’isola. Tufo, acqua e sale; turchese e ocra. Ti prende, ti accompagna e guida nel luogo che fu suo e suo rimane, con sopra le impronte di un fisico da Nettuno, la barba da lupo marino, due mani grandi come chiglie.
Gioacchino Cataldo, l’ultimo rais, il capo della tonnara, una pesca antica millenni. Morte per la vita. Il sangue dei tonni fa rosse le onde, porta fortuna, regola l’esistenza di chi a Favignana, Egadi, Sicilia, è nato ed è rimasto, aggrappato alle reti, ai gesti e ai fasti di un rito estinto. Ultima mattanza, 9 giugno 2007. Turisti, scolaresche, coni gelato sotto la statua di Ignazio Florio, il padrone di un’avventura che fu genio imprenditoriale e fatica e sapienza raffinata da cinquemila anni di storia lungo le coste del Mediterraneo.
Rais allenati ad annusare l’aria, a decifrare correnti e mutamenti delle temperature tra Gibilterra e la Tunisia sotto un firmamento arabo, la vera volta celeste. Primi tepori estivi. I turisti non sanno, avvertono a spanne. L’ombra di Gioacchino attraversa piazza Europa, pedala sopra una vecchia bicicletta, trasporta un tonno enorme, il sangue cola dal telaio, è una scia rossa sulle pietre chiare. Si ferma, apre con il coltello quel corpo lucido, maestoso, taglia e mangia, a crudo in mezzo a ragazzini stregati.
Sono uomini adesso, ricordano, raccontano, annullano la distrazione del turista che è arrivato qui con la voglia di un primo tuffo e adesso si guarda attorno, comincia a percepire i segni di una storia che mai dimenticherà. Il porto è un teatro, scompaiono aliscafi e catamarani, si fa imponente lo stabilimento Florio là davanti, restaurato in parte, trasformato in museo.
Novecento persone dentro, allora, a trattare il maiale del mare, ogni sua parte utile, salvo pinne e colonna vertebrale. Lo presero i Florio nel 1841, diritti di pesca acquisiti nel 1874 con l’idea di cuocere i tonni dentro 24 caldaie, lasciarli ad asciugare, conservare la carne sott’olio. Una rivoluzione commerciale.
Di fronte, sul lato opposto della baia, sta la Camparia, la rimessa, il luogo in cui ogni attrezzo utile alla pesca veniva realizzato, riparato, forgiato. Mesi e mesi di preparazione per arrivare al giorno del giudizio. Questa la stagione, il momento. San Giorgio, 23 aprile, ad indicare l’allerta, San Pietro sulla croce issata sulla muciara, la barca del rais. Gioacchino aveva aggiunto altri santi, i suoi. Guardava il mare, annusava il vento, impartiva l’odine.
Uno sciamano. Dio, ritto sulla nuvola di mezzo, tra mare e cielo, saggezza e mistero, a leggere i geroglifici della natura, le rughe degli uomini, per decidere infine dove calare la tonnara e aspettare la benevolenza di quei santi.
Otto chilometri di reti, 80 chilometri di cavi d’acciaio, 3.000 galleggianti, 4.000 blocchi di tufo, 300 ancore. Un labirinto di 360 mila metri quadri messo in mare in un punto preciso, eccolo, questo qui per intercettare i branchi in entrata dall’Atlantico, nella stagione dell’amore.
Aprile, maggio, giugno. Cento giorni per dare calibro alla fortuna di un intero anno. Sette stanze, sette passaggio obbligati, posizionati leggendo il movimento antiorario del tonni. L’ultima, camera della morte, per dare inizio alla mattanza. Uomini che recuperano la rete, i gesti ritmati da una nenia ripetuta per ore, altri uomini che arpionano, issano a braccia mentre le bestie scosse avvertono e sbattono, scodano e resistono in una corrida acquatica che racchiude un doppio destino.
Tonni: a migliaia nelle annate buone, meno di cento l’ultima volta. Troppo pochi per tenere in piedi l’intera tonnara. Mentre la pesca si era già spostata su piani meno sostenibili, i branchi avvistati dagli aerei, intercettati dalle tonnare volanti. Le navi arrivate qui dal Giappone pronte e portar via i gioielli. Tonni rossi come pepite. Scambiati con tonni gialli pescati altrove, congelati.
Diceva: «La morte di un tonno non è diversa da quella di un’alice. È il sangue a dare l’idea di una differenza». Diceva: «È il tonno che ci insegna a pescare». Diceva: «È il tonno che ci ha permesso di rimanere». Gioacchino Cataldo era emigrato in Germania per lavorare, guardare il mondo da un’altra prua.
A Favignana era tornato preso da una nostalgia deliberata, da un amore mai sopito. Moglie, un figlio, Pino, una figlia, Antonella, che conserva memoria precisissima, rilasciando l’amore ricevuto da un padre vicino, finalmente, dopo l’ultima mattanza. Liberato dal peso della responsabilità che tocca al solo rais. Era stato nominato “patrimonio vivente” dall’Unesco.
Il suo viso, il suo fisico gigantesco immortalato nelle fotografie con l’arpione conficcato, i riccioli biondi del suo pard, Clemente Ventrone dall’altro lato del tonno. Interviste e autografi, tutti a cercarlo tra la Camparia e le cave di tufo dove mise piede da ragazzino e poi più.
Appuntamenti alle 10.15 del mattino per farsi portare in mare sulla sua piccola barca, chiamata “Gioacchino” secondo prassi egocentrica da capo. Racconti e segreti, la passione per la cucina, praticata a bordo con un piccolo fornello. Polpette, tonno sotto sale, lattume impanato e fritto, a casa. Piantava la forchetta sui pomodori e tagliava infilando il coltello nelle scanalature. Fette identiche, sottili perché è così che si fa, il solo modo, guai. Favignana è uno scrigno colmo di gesti, utensili, “vasceddi” anneriti dalla pece.
Storie, racchiuse in una grande storia marinara. Abbastanza per indurci a fare sosta, riflessione. La sequenza dei rais è una dinastia che, sola, invita alla scoperta. Leader per successione, nomina, vocazione. Tonnaroti per sempre. Una cronologia complessa detta i passaggi di proprietà, le sorti alterne della tonnara. Richiede ben più di un articolo di giornale e invita a scoprire sognando di far parte.
Ogni inquadratura contiene un reperto che appartiene a un dizionario specifico, a una pratica dedicata. Un patrimonio a disposizione della curiosità. “La Camparia” è stata rilevata da un imprenditore palermitano. Un luogo di incontro che pare finto tanto è bello, un museo nel quale troneggia la antica lancia di Donna Franca Florio (1873-1950), moglie di Ignazio Jr., l’Unica” secondo definizione di Gabriele D’Annunzio, la “Stella d’Italia” per il Kaiser Guglielmo II.
Antonella Cataldo, come suo padre, da Favignana era volata altrove, un’atleta, pallavolista di primo livello. Come suo padre a Favignana è tornata per scelta, ritrovando così la sua radice più preziosa. È lei che indica adesso.
E permette di rintracciare quell’ombra possente di Gioacchino. A Punta Lunga si era costruito una piccola casa usando quelle sue mani là, portentose. Lo seguo adesso mentre richiama come ogni giorno i gabbiani. Lo riconoscono, arrivano aspettano un po’ di cibo. Sulla parete che guarda il mare aveva aperto “la finestra più bella del mondo”. A colpi di piccone aveva scavato un passaggio per raggiungere una caletta nascosta dove portare i figli a mare con quella sfrontatezza che ha avuto sempre, da istrione, portatore di un tratto tenero e selvaggio.
I capelli come onde scure, la barba che prende il grigio, la sua amatissima camicia a fiori indossata tutti i giorni perché era quella e basta da portare, che fosse lavoro, apparizione in tv o il tavolo all’Albatros, il bar del corso, dove nessuno osava sedere. «Non sono mai solo. La mia testa è piena di ricordi, profumi. Forse perché sono un romantico e non posso cambiare».
L’ha portato via un tumore il 21 luglio 2018, aveva 77 anni e gli occhi vispi del ragazzo che è stato, sveglio e pronto, con una curiosa attitudine per i numeri. Prima di lasciarla chiese ad Antonella un’ultima cortesia. Tonno salato e pomodori. Il sapore pieno del suo mare, della sua vita, per sempre.