La teoria della moda L’invasione russa in Ucraina sta avendo un serio impatto sull’industria italiana

Se ci fosse la necessità di mantenere in vita le sanzioni, lo scenario vedrebbe una crescita poco superiore allo zero a fine 2022: non esattamente l’aspirazione di un settore (seconda voce del Pil italiano) che solo nel 2020 aveva perso 24 miliardi di euro, riuscendo a recuperarne 16 nel 2021

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Se non avete ancora ascoltato “La teoria della moda”, il podcast di Giuliana Matarrese per Linkiesta Eccetera dedicato al fashion system, cliccate qui.

Ci sono delle sanzioni comminate, e c’è anche chi le sfida. C’è una guerra che va avanti da mesi, anche se speravamo si esaurisse in breve tempo, e con un lieto fine. C’è un mercato del parallelo, che quelle sanzioni le vuole aggirare  – uno scenario prevedibile – e nel mezzo c’è anche l’impatto dei social, che tutto deforma e tutto ingigantisce, partendo dai gesti filo-nazionalisti di influencer russe armate di cesoie e pronte a distruggere le borse Chanel che a loro non è più concesso comprare, passando per le pressioni, che proprio dai social arrivavano, nei confronti delle maison

Cosa vuol dire, per la moda, nel pratico, il protrarsi dello scontro tra Russia e Ucraina? E com’è la situazione a più di 4 mesi dall’inizio dell’invasione russa? 

La guerra è iniziata il 24 febbraio, proprio durante lo svilupparsi della scorsa Fashion Week: un fatto del quale torneremo a parlare alla fine, per fare una riflessione sul compito e sui doveri che pensiamo abbia la moda, sulla valenza simbolica che le diamo e, dall’altra parte, sul modo in cui consideriamo e trattiamo lo stesso argomento nella quotidianità. 

 

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Le perdite
Prima di arrivarci, però, è necessario spiegare, e dare la misura, delle conseguenze reali e tangibili che la presenza delle forze di occupazione russe in Ucraina ha avuto e continua ad avere oggi. Si è partiti con le sanzioni comminate dall’Europa – che proibiscono di vendere, trasferire, o esportare, direttamente o indirettamente, dei beni di lusso che superano i 300 euro di costo a qualunque persona fisica, legale o entità presente in Russia – poi c’è stata la chiusura dei negozi delle principali maison russe, e poi parallelamente fenomeni accessori che potremmo definire folkloristici, dalla portata sociologica, che hanno superato persino le profezie di Guy Debord.  

Concentrandoci sui primi, il quadro è complesso e stratificato: cosa vuol dire per la moda, seconda voce del Pil Italiano, smettere di vendere, almeno temporaneamente, alla Russia? Certo, il 25 febbraio – il giorno dopo l’inizio del conflitto – è stato drammatico in Borsa, dove Moncler ha perso il 4%, Brunello Cucinelli il 5%, Kering e LVMH – quotate a Parigi – si sono fermate a 4 punti percentuali in meno. 

Tutti dati che riflettevano l’incertezza su un’invasione inaspettata, e che però sono stati assorbiti nei giorni successivi. Parlando di dati e numeri meno aleatori, secondo Confindustria Moda, la Russia è il settimo Paese in fatto di esportazioni di moda femminile per l’Italia, con 374 milioni di euro di export (il 4,7% del totale), in crescita del 15,4%. 

Parlando del settore a livello generale, secondo le dichiarazioni del presidente di Confindustria Moda, Cirillo Marcolin, riportate dall’agenzia Adnkronos, la Russia vale il 2,2% dell’export, in crescita nel 2021 del 17%. Dati leggermente inferiori a quelli globali: secondo gli analisti di Bernstein, Russia e Ucraina insieme rappresentano il 5% delle vendite globali del lusso, sconfessando i timori di chi è fermo ad una visione vanziniana dei russi come nouveaux riches, fondamentali nelle economie mondiali. 

Chi invece ha ragione di essere preoccupato è il settore calzaturiero italiano. Secondo Assocalzaturifici, la Russia rappresenta uno dei mercati di riferimento con 3 milioni di paia di scarpe acquistate, per un fatturato pari a 220 milioni di euro ed una crescita nell’ultimo anno del 9%. L’Ucraina, che invece importa 400.000 paia di scarpe italiane – per un valore di 30 milioni di euro – ha registrato una crescita del 16%. Tutti dati ai quali si deve sommare il mancato shopping turistico (il cosiddetto luxury spending abroad) di chi, dalla Russia, si recava nel quadrilatero milanese o nelle maggiori città per poter acquistare in loco i prodotti delle proprie maison preferite (spendendo complessivamente, secondo la Camera della Moda Italiana, tra i 250 e i 300 milioni di euro). 

Un quadro che, secondo le stime, non avrà effetti a lungo termine, a patto che il conflitto si concluda in una manciata di settimane (cosa che non è avvenuta). Secondo gli analisti di Bernstein research, nel caso più auspicabile il calo sarà riassorbito e potremo chiudere il 2022 con una crescita che va tra il 10 e il 18%. Se, purtroppo, perdurando la situazione di invasione ci fosse necessità di mantenere in vita le sanzioni, lo scenario vedrebbe una crescita poco superiore allo zero: non esattamente l’aspirazione di un settore che solo nel 2020 – primo anno di pandemia – aveva perso 24 miliardi di euro, riuscendo a recuperarne 16 nel 2021. 

E infatti, ad aprile, forse spinto da una situazione che si preannunciava drammatica, Assocalzaturifici è finita nell’occhio del ciclone perché ha partecipato alla Fiera Obuv’ Mir Kozhi, un tradeshow organizzato da Bologna Fiere, che si tiene a Mosca due volte l’anno dal 1997. Chiariamolo subito: la partecipazione ad una fiera non è proibita dalle attuali leggi, in quanto nel momento della fiera, non c’è il momento della vendita, ma è considerabile assai “inopportuna” visto lo scenario geopolitico. 

48 espositori italiani, di cui 28 provenienti dalle Marche, sponsorizzati dalla stessa Regione, hanno partecipato alla fiera. La scelta è stata spiegata da Bologna Fiere al Giornale, sostenendo che c’era la necessità di scongiurare penali assai costose se l’evento non si fosse tenuto regolarmente: in effetti, quando si firmano contratti in questo settore, sono molto spesso pluriennali, sottoscritti anni prima della loro organizzazione, ed è impossibile essere dotati della prescienza utile a conoscere il cambiamento delle condizioni geopolitiche.

Sanzioni e reazioni social
Ma cosa succede, oltre i dati? Chi cerca di applicare le sanzioni in maniera vigorosa e aderente alle richieste dell’Unione europea del 15 marzo rischia però di causare le ire furiose di danarosi clienti e celebrities di Instagram. È andata così all’interior designer Lisa Litvin e alla blogger Polina Pushkareva che, rispettivamente, nelle boutique di Dubai e Parigi di Chanel, si sono viste richiedere dei documenti che attestassero la loro residenza al di fuori della Russia, per poter procedere all’acquisto. 

La seconda, vivendo attualmente a New York, non ha avuto problemi di sorta: è andata peggio alla prima che “umiliata e discriminata”, come ha detto al Bof, ha deciso di regalare ad altri brand più comprensivi la sua munificenza (nello specifico, ha strisciato la carta con gusto da Jimmy Choo, ci raccontano le cronache). Un atteggiamento assai osservante della legge, quello della maison della doppia C che però potenzialmente potrebbe scatenare delle cause per discriminazione: consentire l’acquisto solo ai clienti che rispondono a certe categorie specifiche, come quella della nazionalità, per quanto rispondente alle attuali sanzioni, è un atteggiamento sul limite del discriminatorio. 

Nessuno però incolpa la maison che si trova a navigare come molti altri grandi brand le acque incerte di questi tempi assai tempestosi. E la storia di Litvin ha scatenato però le reazioni spropositate della connazionale Marina Ermoshkina, presentatrice russa che dal suo account instagram “@amazing_marina” ci ha tenuto a mostrare come ci si comporta, quando l’orgoglio è ferito, e l’acquisto di una 2.55 da 9.650 euro – diritto umano fondamentale – viene negato: si prendono le forbici da giardinaggio e si fa a pezzetti l’oggetto dello scandalo, urlando alla “russofobia”. 

Ispirata da questo gesto di estremo coraggio, l’influencer Victoria Bonya (9,3 milioni di follower) ha fatto lo stesso. Chanel non ha commentato direttamente le reazioni delle influencer ma si è scusato in una nota ufficiale «di qualsiasi malinteso causato dagli accadimenti, in quanto l’azienda accoglie tutti i suoi clienti, a prescindere dalla loro provenienza» ammettendo che però «rispettare le richieste della legge, in questo caso, può aver causato delusione in alcuni clienti».

 

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Una risposta che non è sembrata abbastanza contrita a Ermoshkina, che ha deciso di buttarsi in una vendita benefica delle sue borse del brand, di cui il ricavato sarà donato, ha sostenuto lei, ad un’associazione che aiuta la popolazione del Donbass. Dichiarazioni riportate anche da New York Times, ma ad oggi non è dato sapere se sia successo davvero, e quale sia la specifica associazione.

Come la Russia sta aggirando le restrizioni
Già a marzo il Paese aveva legalizzato le importazioni parallele, permettendo insomma ai rivenditori e proprietari di boutique o di store online di vendere prodotti di brand terzi, all’estero, senza l’approvazione dei brand in questione, usando ovviamente ciò che era rimasto dell’inventario, considerato che i brand hanno smesso di esportare verso i rivenditori del paese. 

Ora però, secondo un’inchiesta di Panorama, sta spuntando quella che è la figura del Daigou, ossia un professionista dello shopping per conto terzi. Una forma comunque illegale che veniva utilizzata in Cina – dove i prezzi sono più alti anche per via delle barriere doganali – per poter acquistare all’estero con forti sconti, per poi rivendere nel loro paese a prezzi competitivi, maggiorati del 30% rispetto al prezzo del loro acquisto. 

In Italia, secondo Panorama, il mercato parallelo si muove sulle sample sale, le svendite di campionario, di collezioni passate di recente, che sono scontate su una percentuale che va dal 50 all’80%. A queste svendite, organizzate in temporary shop, secondo alcuni operatori del settore intervistati dal giornale che hanno voluto rimanere anonime, solitamente gli italiani comprano 2-3 pezzi in media, mentre i cinesi non acquistano meno di 50, staccando scontrini anche da 40 mila euro. 

Secondo le stesse impiegate del settore, negli ultimi tempi ai daigou cinesi si stanno affiancando “alcune” daigou provenienti dalla Russia. Ovviamente si tratta di informazioni assai generiche che non possono portare alla denuncia di una situazione al di fuori delle normative, ma è  possibile che, laddove gli acquisti in patria risultino vietati, si arrivi a soluzioni “alternative” per aggirare le condizioni attuali del mercato. 

La percezione popolare in Italia rispetto alla moda
Oltre però a questi scontri titanici, l’invasione russa dell’Ucraina ci ha messo di fronte ad uno storico problema: quello della percezione popolare in Italia rispetto alla moda. Spesso vilipesa e accusata di frivolezza e di mancanza di profondità, alla moda, non si capisce per quale motivo, si richiede però spesso di “prendere posizione”, “schierarsi”, “agire, seppur con gesti simbolici”. 

Se in alcune lotte animaliste  e ambientaliste la moda ha ovviamente le sue colpe, ed è lecito chiederle di rispondere di una nuova consapevolezza ambientale (e di adeguarsi), non si capisce perché sia assolutamente obbligatorio che qualunque stilista dica la sua sul conflitto, esprimendo riprovazione e chiare visioni geopolitiche (di cui nella maggior parte dei casi, gli stilisti, che fanno un altro mestiere, sono giustamente sprovvisti).

Secondo la repubblica italica dei social, sarebbe stata una scelta di buon gusto   rinunciare alla prima fashion week, quella di febbraio, tornata con la maggior parte degli show in presenza dopo due anni, come segno di protesta contro Putin, come se privarlo della visione dell’ultima sfilata di Prada potesse causare un qualunque tipo di ripensamento o rimorso nella mente del dittatore del Cremlino. Posizioni prive di qualunque fondamento e che sicuramente hanno trovato terreno fertile nel tempismo sfortunato con il quale la guerra è iniziata (in piena Fashion Week milanese). 

Abituati da una certa tv generalista, e dai social, a sentir l’impellenza di dire la nostra su ogni argomento, sicuri che basti un quadratino nero nel feed per segnare un punto vincente nella lotta al razzismo, che trasformarsi ogni giorno in opinionisti informati su un argomento diverso aumenti il livello del dibattito, siamo convinti che chi ha una piattaforma più ampia, come le maison di moda, dovrebbe essere obbligato per legge a fare lo stesso. 

Nel farlo, ci si dimentica allegramente che il sistema della moda è fatto da aziende private, e non a maggioranza statale: la moda non è Res Publica, non è un ente politico con delle posizioni da esprimere, e certe prese di posizione bisognerebbe richiederle con vigore solo ed esclusivamente alla politica (e in effetti sono molti i brand solo in Italia che scelgono consapevolmente di non investire i loro budget pubblicitari su quotidiani politicamente schierati, per evitare alcun tipo di associazione con una corrente o un partito). 

Nello stesso modo, la Fashion Week andata in scena a febbraio non era solo l’insieme di frivolezze e visioni eclettiche di creativi abbastanza scollati dalla realtà, così come non si è trattato solo di una parata di look improbabili di influencer e addetti al settore, ma era la prima occasione nella quale un intero comparto fondamentale per la nostra economia – fatto anche di artigiani, operai specializzati, sarte – dopo due anni, poteva tornare a mostrare al mondo il frutto del proprio lavoro, sperando di avercelo ancora, un lavoro, dopo due anni di pandemia. 

Forse stonata rispetto al clima globale, ma di fondamentale importanza per la nostra economia. Una difficoltà che hanno avvertito le stesse maison, che si sono subito attivate per aiutare come potevano, andando oltre certe frasi alquanto scontate, quelle del ripudio di ogni guerra. La Camera della Moda Italiana ha aderito il 27 febbraio all’iniziativa lanciata dall’Agenzia per i rifugiati dell’Onu, l’Unhcr, donando i proventi derivanti proprio dalla Sala Milano della Fashion Week. 

Soldi che sono stati usati per beni di prima necessità sia per l’Ucraina sia per i Paesi confinanti come Moldavia e Romania. La Camera ha poi invitato i suoi membri a fare lo stesso: al progetto, a cui aveva già preso parte l’OTB Foundation di Renzo Rosso, si sono uniti maison come Valentino, Gucci, Prada, Missoni, Giorgio Armani ed Etro, donando cifre consistenti che vanno dai 500.000 dollari di Gucci al milione di euro donato da Vuitton all’Unicef, per tutelare i diritti dei bambini colpiti dal conflitto. 

Eppure, di fronte a tutto questo impegno, si rimane comunque generalmente freddi, come se fosse scontato, come se il sistema della Moda dovesse rispondere a noi, come se ne fossimo azionisti di maggioranza. E forse è proprio questo il succo del problema in Italia: capire se vogliamo fregiarci davvero di una dicitura che, per tutto il mondo, è ancora sinonimo di inarrivabile qualità, quel Made in Italy. 

La conseguenza logica sarebbe trattare la moda italiana con il rispetto che merita, però tutti i giorni, non derubricandola alla sezione Costume di un quotidiano a caso, ma regalandole lo stesso rispetto delle pagine di Politica o di Esteri. Anche perché, un sistema megalitico che influisce direttamente e indirettamente non solo sul nostro armadio, ma anche sul modo nel quale viviamo la nostra vita, sfruttiamo la tecnologia, ci rapportiamo con gli altri (e che ha fatturato più di 83 miliardi di euro nel 2021, al netto della pandemia e delle difficoltà con la supply chain) si merita più di qualche frivola domanda su quale borsa useremo la prossima stagione. 

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