Conteneva moltitudiniL’egemonia culturale di Guglielmi e la pretesa fessa di replicare la sua tv

È morto l’intellettuale che in soli sette anni (28 anni fa) ha cambiato la televisione italiana costruendo programmi decisamente irripetibili (a meno che non si creda nei corsi e nei ricorsi storici)

ROBERTO MONALDO/LAPRESSE

«Se il Potere vi dovesse offrire di dirigere una rete televisiva accettate senz’altro; potreste diventare migliori di quel che siete. Forse capirete cos’è la tv; e capirete perfino qualcosa del Potere». Lo scrivono, all’inizio di Senza rete: Il mito di Rai Tre 1987-1994, due signori che, qualunque altra cosa abbiano fatto, resteranno sempre quelli di quella stagione che cambiò la tv italiana, Angelo Guglielmi e Stefano Balassone.

Angelo Guglielmi è morto ieri a 93 anni, e se si cerca il suo nome su Google la prima mansione che viene fuori è “critico letterario”. Il che induce una domanda, visto che sì, Guglielmi è stato un letterato, un intellettuale (quel che più conta: un detrattore di Pasolini); ma – in quello che chiedo perdono se chiamo “immaginario collettivo” – sarà sempre quel tizio che, sapendo scegliere di chi avvalersi (poi ci torniamo), ha preso una rete irrilevante e l’ha trasformata nel luogo di Chi l’ha visto e di Quelli che il calcio, del Portalettere e di Avanzi, di Telefono Giallo e della Piscina (uh come ci torniamo, sulla Piscina).

Ecco: come succede che, di novantatré anni di mansioni intellettuali, di te si ricordino innanzitutto quei sette anni finiti ventotto anni fa? Perché la tv è egemone, d’accordo, ma non può essere solo quello.

Un anno fa faceva molto caldo e io stavo molto traslocando, quindi non sono andata in Triennale, a Milano, dove Guglielmi si era organizzato il funerale da vivo. È una cosa che fanno quelli la cui vanità è così grandiosa da non venire dissimulata. Nora Ephron non aveva detto a nessuno che stava morendo, ma aveva preparato le orazioni funebri che, appena morta, la sua famiglia ha comunicato a Tom Hanks e Meryl Streep che avrebbero dovuto tenere.

Guglielmi sapeva di avere a disposizione non certo Tom Hanks, e quindi la celebrazione l’ha voluta in propria presenza, acciocché l’ansia da prestazione facesse dare agli scappati di casa della tv italiana il meglio.

La ragione di cui sopra – quella per cui di Guglielmi si ricorda Rai 3, come di Vivien Leigh si ricorda Via col vento – è molteplice e vaga. Perché sì: se eravate carta assorbente (cioè: adolescenti o giù di lì) in quei sette anni finiti ventotto anni fa, non potete non averne fatto un feticcio culturale. Siete cresciuti con Corrado Guzzanti e coi film di Howard Hawks in lingua originale (quando l’altro giorno è morto Vieri Razzini ho pensato che a raccontarlo oggi non sembra neanche vero: la tv pubblica ci faceva vedere i film in bianco e nero non doppiati alle dieci e mezza di sera; dopo, sono venuti anni così inutili che un’intera generazione pensa che la lingua originale se la sia inventata Netflix). Siete cresciuti con Paolo Rossi e Alessandro Baricco e Corrado Augias. Quelli di oggi crescono con XFactor e Zelig e Corrado Formigli: foss’in loro chiederei un sussidio per colmare questo svantaggio di formazione.

Epperò: è una ragione che non basta, perché pochi intellettuali sono stati più equivocati di Guglielmi. Prendiamo sempre da coloro che vogliamo celebrare ciò che ci fa comodo e si accorda con la nostra visione del mondo, ma in questo caso è un’operazione particolarmente fessa, perché Guglielmi conteneva moltitudini che snaturi se fai una selezione che credi culturale e invece è al massimo midcult. Ieri c’era un’intervista a Serena Dandini sul suo (di Guglielmi) valorizzare le donne. Si citavano lei, Donatella Raffai, Franca Leosini. Nessuno mai cita La piscina, eppure Alba Parietti e la sua selvaggeria (cit.) danno la cifra di quella Rai3 più di molte trasmissioni presentabili. («Andrea Barbato era sempre elegantissimo. Scriveva a macchina nell’ufficio di Via Settembrini, nella stanza accanto c’era la redazione della Piscina e ci guardava con disprezzo», racconta chi c’era: quella contiguità di stanze è la miglior polaroid di Guglielmi).

Una delle cose impressionanti, rileggendo Senza rete (lo pubblica Bompiani, e ve lo consiglio caldamente se volete capire un po’ di quella tv e molto di questa e quella Italia), è rendersi conto che il giovane funzionario del Pci che fa da mediatore quando al partito che apparteneva «alla cultura del latifondo, pur nullatenente» viene assegnata la terza rete, e si finisce per dare la direzione a Guglielmi (invece che a qualcuno di più organico), quel tizio lì, che determina i consumi culturali della mia adolescenza, non ha neppure trentadue anni. Si chiama Walter Veltroni, ma questo è secondario. Quel che ho pensato ieri è stato: ma te lo vedi un trentunenne di oggi avere quest’influenza senza essere sposato con la Ferragni?

Prima di proseguire devo fare quella cosa da articoli americani di denunciare i conflitti d’interesse dell’articolista. Stefano Balassone era il vice di Guglielmi. Bruno Voglino era il capostruttura del varietà (cioè quello che, da Fazio in giù, s’è inventato un po’ tutti quelli che abbiamo guardato nei decenni successivi). Non ho mai incontrato Guglielmi, ma Balassone e Voglino hanno la responsabilità di avermi procurato i miei primi due ingaggi radiotelevisivi retribuiti. Lo dico non per indicare ai miei detrattori i nomi da colpevolizzare se non ho più dovuto trovarmi un lavoro vero, ma per spiegare perché ieri ho telefonato a Stefano Balassone – dal quale venticinque anni fa ho imparato l’unica cosa che serve sapere della tv italiana, cioè: è figlia di Portobello e di Vermicino – per chiedergli cosa farebbe oggi il trentunenne del Pci.

«La nostra astuta generazione ha così ripartito i compiti: i trentenni dominano il consumo ma non le decisioni», mi ha risposto, e io per un attimo ho pensato che forse avrei dovuto scrivere di quella che è la vera questione generazionale, e non di quella parola unica che è laraitrediGuglielmi. Una rete in cui, appunto, c’erano programmi che ricevevano la ferma condanna di Umberto Eco (Un giorno in pretura) e programmi in cui la Parietti ansimava Etienne, eppure l’idea di una tv che volesse sporcarsi le mani con la realtà, sebbene ripetuta come slogan, sembra continuare a non essere chiara a chi sospira ah, la tv degli intellettuali, ah, la tauromachia.

Balassone elenca le persone che circondavano Guglielmi, «il cattolico morboso Beghin, il postmoderno d’ordine Voglino, il situazionismo molto controllato di Ghezzi», e vengono in mente due analogie. La prima è con la Repubblica di Ezio Mauro, che poteva anche avere un editorialista dichiaratamente fascista senza perdere nulla in identità. Questo perché Guglielmi aveva una forte personalità («era molto facile lavorare in un contesto di autorevolezza») ma anche per la formula che Balassone riassume in: «Serviva la libertà della ricerca, e quella era merito di Guglielmi, e la certezza del potere, e quella era merito della lottizzazione» (santiddio quanto mi manca il Novecento).

La seconda analogia è con l’unico altro dirigente televisivo italiano così immediatamente identificabile e così memorabile: Ettore Bernabei. Balassone dice che non è un accostamento poi così strano, nonostante l’evidente diversità culturale: «È una questione di metodo, più che di merito: si trattava della sublimazione di un’idea di progresso mischiata con molto controllo». Per dirla eziomauramente: anche Bernabei, come Guglielmi, aveva un’idea di mondo.

Le nostalgie sono fesse: quella tv non è replicabile, e non solo perché oggi gli intellettuali, come dice Balassone, invocano «i valori della competenza come una volta s’invocavano le pie donne, come fosse un mondo stabile», invece di capire che «i fenomeni vanno affrontati spacchettandoli e comprendendoli», confusi come sono dal «tanfo del popolare moltiplicato dall’effetto social, vogliosi di verità certe piuttosto che problematiche».

Non è replicabile perché nasceva verso la fine della guerra fredda, e il mondo è cambiato e lo stesso Guglielmi, nel 2010, scriveva: «Sempre più spesso negli ultimi tempi, di fronte allo stato di decadenza della nostra televisione, mi chiedono che cosa farei per uscire dal danno. Rispondo che non lo so e forse continuerei a non saperlo se toccasse a me pensarci».

Sarebbe facile concludere: non esistono corsi e ricorsi, il mondo si è evoluto. Ma il mondo è regredito ai tempi della tv in bianco e nero, quella che in Senza rete Guglielmi e Balassone descrivevano così: «In mancanza di fatti veri, sotto il dominio, anzi, dei fatti mancati, si sprecavano gli appelli: alla responsabilità democratica, alla responsabilità pedagogica, alla parsimonia, all’obiettività contro la faziosità». È una descrizione così precisa della militanza nei beati anni di Instagram che quasi quasi cambio idea: nei corsi e ricorsi, ora arriverà una qualche nuova laraitrediGuglielmi a redimere (o almeno a ravvivare) le nostre vuote ciance.

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