Sonny e noiIl talento sottovalutato di James Caan e lo straziante rito del decesso pop

L’attore di Misery non deve morire e del Padrino non ci veniva mai in mente quando facevamo l’elenco di quelli bravi, ma senza di lui quei capolavori non sarebbero stati gli stessi

LaPresse

Paul Sheldon aveva una bottiglia di Dom Pérignon in ghiaccio, e per aprirla aspettava di scrivere «fine» sotto al dattiloscritto del nuovo romanzo. Disciplinata attesa di finire di lavorare per cominciare a bere a parte, Paul Sheldon era taleqquale a noi. Questo però non lo sapevamo, allora.

Non lo sapevo io che avevo diciott’anni e facevo (il meno possibile) i compiti; ma non lo sapevano neanche gli adulti, che non avevano cellulari, piattaforme social, interazioni quotidiane con picchiatelli, reputazione costantemente a rischio.

Nessuno si aspetta l’inquisizione spagnola: nessuno sapeva che, tre decenni dopo, il mondo sarebbe stato diviso in Paul Sheldon, che crede di poter fare con l’opera del suo ingegno ciò che crede, e Annie Wilkes, che gli spezza le gambe perché lui, il suo romanziere preferito, vuole osare uccidere la sua eroina della finzione letteraria.

Misery non deve morire era una tempesta perfetta di talenti di quelli che non ci vengono mai in mente quando dobbiamo elencare i migliori, e poi quando muoiono li piangiamo. Il romanzo di Stephen King l’aveva sceneggiato William Goldman, quello del Maratoneta, di Tutti gli uomini del Presidente, e soprattutto di Butch Cassidy. Il film lo dirigeva Rob Reiner, che da Stand by me a Codice d’onore, passando per Harry, ti presento Sally, è stato sempre attentissimo a non farsi notare mentre faceva la storia del cinema. Annie Wilkes la interpretava un’ultraquarantenne con tre menti e nessuna fama: oggi, tra una ciancia sulla body positivity e l’altra, l’invasata che rapisce lo scrittore la farebbero interpretare a una tettona venticinquenne con milioni di cuori su Instagram, mica a una sconosciuta Kathy Bates.

E poi c’era James Caan. James Caan non ci veniva mai in mente. Non ci veniva in mente quando facevamo gli elenchi dei bravi, quasi neanche ci veniva in mente quando discutevamo del Padrino. Al Pacino vabbè, era Al Pacino, ma se dovevamo dire del Corleone intelligente dicevamo di Vito, e se dovevamo dire del Corleone scemo dicevamo di Fredo. Sonny mai. Quasi mai. Poi su quel «quasi» ci torniamo, ora non vorrei trascurare Paul Sheldon.

Il film era di Annie. Paul doveva stare a letto. Prima infermo, poi prigioniero. Il film era il crescendo d’isteria d’un tipo di carattere che oggi vediamo tutti i giorni e trentadue anni fa era terrorizzante. Raccontava James Caan che, prima dell’uscita, avevano fatto vedere il film a Stephen King. Goldman aveva ripulito la storia da molta della violenza che c’era nel libro, ma James Caan costretto a letto era comunque la più indifesa vittima che si fosse mai vista. Quando lei sta per ammazzarlo, nel buio della saletta di proiezione si sente la voce di King, coinvolto come uno spettatore qualunque: stai attento, ha una pistola.

Ci voleva uno che potessimo dimenticare, per ricordarci di empatizzare. Ci voleva uno del quale vent’anni prima avessimo pensato: ah, questo è il Corleone bello ma cretino. (Tutti i figli di don Vito sono cretini, com’è giusto che sia. Nessun uomo che abbia una qualche forma di potere, sia denaro o fama o malavita, ha figli non cretini. Michael è isterico, Santino è fesso, Fredo è sia isterico sia fesso, Connie è fessa, isterica, e pure femmina).

La cretineria di Sonny, così cretino da cascare nella trappola organizzata dal cretinissimo cognato, è il mio litigio preferito nelle discussioni sul Padrino (litigare sul Padrino è un’attività altamente ricreativa). I piccoli fan non sopportano che si dia del cretino a un protagonista del loro film preferito, non sapendo discernere che la stupidità è un meccanismo narrativo indispensabile: se Sonny non fosse cretino, non esisterebbe il film.

Giovedì su Twitter era una gara a ricordare che Caan non era italoamericano, ma era la prova che c’era una tolleranza identitaria tra ebrei e italiani, ci si potevano scambiare le interpretazioni. Temo che Occam suggerisca un’altra spiegazione: cinquant’anni fa, l’identitarismo era meno prescrittivo di oggi; oggi che si arena il progetto d’un biopic di Joan Rivers perché, santo cielo, l’attrice scelta per interpretarla non era ebrea. Sì, all’epoca c’era Jack Nicholson che diceva d’aver rifiutato Il Padrino perché era giusto il ruolo andasse a un italiano, ma era un’idea sua, non una regola che guai a violarla, e comunque la rinuncia di Nicholson esce dal dibattito tra identità culturali ed entra nel campo dei casting mancati su cui fantasticare. (Cosa sarebbe stato Via col vento con Bette Davis? O Il laureato con Robert Redford?)

Guardavo i coccodrilli social di James Caan, uguali a tutti gli altri – ehi, ho una foto col morto – ma diversi da molti altri – ad avere una foto col morto è Barbra Streisand, mica Vongola75 – e pensavo che sì, i social sono corresponsabili del quotidiano piangere qualcuno di cui magari non ci ricordavamo nelle classifiche dei nostri preferiti; ma c’è un’inevitabilità temporale che prescinde dalla malefica invenzione delle piattaforme dei cuoricini.

La cultura popolare come la intendiamo è un’invenzione degli anni Sessanta, che incidentalmente sono anche gli anni che hanno inventato la gioventù. Sono il decennio che ci ha convinti che essere ventenni fosse fighissimo, e il decennio che ci ha convinti che i film e le canzonette sono importantissimi. La prima generazione di poster della cultura popolare, quelli che avevano vent’anni allora, ora ne hanno ottanta, e muoiono con una certa frequenza.

James Caan ne aveva poco più di trenta quando interpretò Santino Corleone. E sì, va bene, la storia del cinema, i colossi che non avremo mai più, l’importanza oggettiva di certe opere. Ma, più di tutto, ci appassionano la giovinezza e l’ingenuità di dettagli come quello raccontato da Jennifer Tilly: Caan che, sul set del Padrino, nasconde dei peperoncini in mezzo al cibo, perché Coppola glielo ruba sempre dal piatto e così gli passa la voglia. Ogni funerale ci parla di noi, siamo le prefiche ma anche il cadavere. Non piangiamo Santino e non piangiamo neanche Caan: piangiamo, come tutte le volte che questo rito del decesso pop si ripete, la via Gluck in cui neanche sappiamo più se abbiamo mai abitato davvero.

X