I terranautiLa missione spaziale per salvare la terra dal disastro ecologico

L‘ultimo romanzo di T.C. Boyle edito da La nave di Teseo, racconta un futuro distopico, dove otto individui vengono scelti per partecipare a un esperimento in grado di dare vita a un ecosistema alternativo

unsplash

Possono dire che sono un aziendalista quanto gli pare e piace, ma cos’è un’azienda multinazionale se non un gruppo di persone che si uniscono per far progredire l’umanità e no, non siamo e non siamo mai stati una setta e D.C. non è un guru, o non più, o non lo sarà quando saremo dentro perché una volta che saremo dentro niente potrà scuoterci e niente ci farà aprire quella camera di equilibrio prima del tempo dovuto, tranne un omicidio o il cannibalismo.

Ma persino un episodio del genere non mi farebbe cambiare idea sul progetto. Sarebbe solo un ennesimo fenomeno osservabile nell’ecologia dei sistemi chiusi. Inoltre dovete essere davvero distratti se non capite che il fallimento della prima missione e la ragione per cui la stampa le si era ribellata contro e contro di noi era stata proprio quella: l’apertura anticipata della camera di equilibrio.

Tutto il concetto di Ecosfera, di otto persone che si confinano di propria volontà in un mondo creato dagli uomini per ventiquattro mesi, aveva catturato l’immaginazione collettiva proprio per quel motivo: la premessa della reclusione volontaria, per non parlare di tutte le implicazioni di una clausura del genere con un futuro su Marte.

E2 doveva rappresentare un esperimento su come si crea il mondo, ma era anche un affare commerciale, quel tipo di iniziativa potenzialmente remunerativa che aveva convinto uomini come Darren Iverson a metterci dentro dei soldi. La Terra stava perdendo risorse, il riscaldamento globale iniziava a essere riconosciuto come un fatto scientifico e non come fantascienza, e se gli uomini volevano evolvere in modo da prendere parte alle cose invece di essere solo un altro organismo spacciato in un pianeta spacciato, se la tecnosfera doveva rimpiazzare i processi biologici puri, allora prima o poi avremmo dovuto essere capaci di piantare forme di vita altrove. Su Marte, innanzitutto.

E fin qui ci siamo. Il pubblico lo capiva. La stampa andò in brodo di giuggiole. E2 era ovunque, dalla tv nazionale al New York Times a Time a Newsweek, e in ogni talk show radiofonico immaginabile. E cosa va a capitare? Dodici giorni dopo la prima chiusura un membro della squadra della Missione Uno – Roberta Brownlow – subisce un’emergenza medica, si aprono i sigilli, e finisce tutto. La Terranauta esce nel mondo, il vostro mondo (è così che noi chiamiamo E1, l’ecosfera originale) per meno di cinque ore, ma anche se fossero stati cinque minuti, cinque secondi, la faccenda sarebbe implosa lo stesso. Perché era il concetto che contava, non era forse ovvio a tutti?

Se quelli della Missione Uno fossero stati davvero su Marte, sarebbero morti per quello. Tutti quanti. Se non per la mancanza di ossigeno, allora di fame. La squadra della Missione Uno, di fatto, è andata incontro a una serie di violazioni della chiusura in una panoplia di modi durante il corso dell’impresa – una volta stabilito un precedente, tutti gli altri si erano chiesti perché non farlo di nuovo –, ma il pubblico ormai aveva mangiato la foglia e definito tutta la faccenda come una truffa. Ciao ciao. Adios. Chi se ne importa delle lezioni apprese. Chi se ne importa dell’ecologia. Chi se ne importa
dei modelli e del Bioma di Agricoltura Intensiva e delle interazioni eleganti tra i biomi selvatici e tutto il resto. L’unica cosa importante era che la squadra aveva violato la chiusura, ritirando una promessa, un accordo, ed era davvero una barzelletta. Come ha detto il biologo E.O. Wilson una volta?

Se quelli che si impegnano nella missione falliscono, verranno perdonati. L’imperativo morale dell’umanismo coincide con lo sforzo in sé, che vada a buon fine o meno, a patto che lo sforzo sia onorevole e il fallimento memorabile.

Be’, aveva torto. Non c’era alcun perdono e non ci sarebbe stato la prossima volta o la volta dopo ancora e noi non avremmo commesso lo stesso errore. Ditemi: cosa significa chiusura? Significa chiusura. Punto. La buona notizia è che Mission Control era assolutamente d’accordo con me su questo punto. Per forza che lo era, bisogna pur imparare dai propri errori. Dopo l’incidente, i capi tirarono i remi in barca in fretta ed entrarono in modalità profilattica, della serie anticipiamo i problemi prima che si manifestino. Fecero togliere un dente del giudizio a Gretchen Frost, e T.T. (Troy Tur-
ner) si sottopose a un corso intensivo in odontoiatria d’emergenza, per qualsiasi evenienza, e noi tutti approvammo quella scelta. Forse Mission Control non si spinse al punto di Louis Leakey che si era rifiutato di spedire le sue studiose di scimmie antropomorfe (le sue “Trimate”, così le chiamava, Goodall, Galdikas e Fossey) nella giungla se prima non si facevano rimuovere le appendici in modo da prevenire l’imprevedibile. Leakey, come Wilson, era un umanista quanto uno scientista, e non voleva far correre il minimo rischio di setticemia a una delle sue studiose, temendo che queste rimanessero stecchite a centinaia di chilometri di distanza da qualsiasi possibilità di soccorso medico decente. O da eventuali trasfusioni di sangue.

Provate a immaginate le riserve di sangue negli anni sessanta e settanta nell’Africa Occidentale e nel Borneo. O persino adesso. Adesso è peggio, molto peggio, con l’herpes, l’aids e persino l’ebola che pulsa attraverso i sentieri circolatori della nostra specie che si espande in maniera criminale, epidemie, tutto è un’epidemia, l’incancrenire apocalittico del sangue. Ma è meglio che mi fermi qui.

A Mission Control sarebbe piaciuto farci sdraiare in sala operatoria, ne sono convinto, ma la prevenzione medica oggi è molto più sofisticata di quanto non fosse all’epoca e per questo i capi furono capaci di escludere in maniera abbastanza efficiente qualsiasi segnale di appendicite imminente tra gli otto della selezione finale. E poi, come ho detto, anche se qualcuno di noi fosse andato incontro a qualcosa di catastrofico una volta dentro – appendicite scoppiata, cancrena, arresto cardiaco – non avrebbe fatto un grammo di differenza. Sarebbe finita lì. La morte fa parte dei processi naturali della vita e – in termini strettamente darwiniani, in termini pratici cioè – sarebbe stata una manna dal cielo per gli altri sette. Di fatto, se la squadra della Missione Uno era stata un esempio valido, saremmo stati sotto una pressione tremenda per riuscire a sfamarci, e avere un tratto digestivo in meno avrebbe alleviato un bel po’ di quella pressione.

Sto parlando a livello puramente teorico, sia chiaro, e solo nei termini dell’assunzione di calorie. La perdita di uno di noi sarebbe stata un disastro dal punto di vista comunicativo e dell’immagine, ma anche emotivo, dato che eravamo una squadra ed eravamo devoti l’uno all’altro a prescindere da quello che si dice in giro. È inevitabile che ci siano delle tensioni in qualsiasi impresa che apre davvero il terreno per qualcosa di nuovo, ce lo si deve aspettare e basta. Si
pensi all’esperimento Russian Bios, in cui uno degli uomini aggredì sessualmente una delle donne appena tre mesi dopo la chiusura.

A dire il vero, dato che mi sono avventurato in questo discorso, credo non si possa mai sottovalutare la smania delle persone per il sensazionalismo: se qualcuno era destinato a morire dentro, allora non c’era alcun dubbio che l’attenzione del pubblico sarebbe schizzata alle stelle. È un fatto. Non che sarebbe accaduto, ma eravamo pronti a tutto. Anche se noi otto non ci eravamo spinti al punto da inciderci i palmi delle mani per fare un patto di sangue, avevamo comunque fatto una promessa. Niente dentro, niente fuori. Era il nostro mantra.

La situazione di Roberta Brownlow fu una circostanza sfortunata? Certo che lo fu. E sono sicuro che vi ricordate la frenesia attorno a quella faccenda – il furore addirittura – e come la stampa le abbia ululato contro, come un branco di vere iene eccitate da un odore particolare. O di sciacalli, suppongo, dato che le iene non ululano. Era la rab della Missione Uno, una donna molto attraente, uno schianto a dire il vero, un esemplare di quello che la nostra specie considera materiale riproduttivo di prima qualità, con la figura robusta, i capelli voluminosi e i denti come tasti di pianoforte – quelli bianchi, non quelli neri –, poi aveva un modo di fare con i giornalisti che era vagamente civettuolo da una parte, e dall’altra molto pratico.

Era la candidata perfetta, non solo per il suo aspetto ma perché era una fuoriclasse in quello che faceva il che – pur implicando una conoscenza scientifica o una disciplina minima – da un certo punto di vista era la funzione più essenziale all’interno della squadra: garantire il cibo. Non era il supervisore del raccolto nei campi, l’incarico che sarebbe stato assegnato a Diane Kesselring della nostra missione, ma la maggior parte del suo lavoro consisteva nella produzione di cibo. Quindi era una candidata perfetta, Roberta Brownlow, ed eravamo tutti fieri di lei. (Sì, noi: io ero arrivato, come quasi tutti quelli che conoscevo, due mesi prima della chiusura della Missione Uno, pronto a chinare la testa e a lavorare tra il personale di supporto fin quando non sarebbe iniziato l’addestramento per la Missione Due.)

Ma gli incidenti capitano. E se siete pavidi e spaventati, dei codardi che tremano come bambini dell’asilo nido terrorizzati dalla loro stessa ombra, allora andrete fuori di testa ed è inevitabile che tutto vada a puttane dopo, scusate il francesismo.

Era dentro da dodici giorni. Si trovava nel seminterrato dove sono collocati tutti i nostri sistemi di supporto – le unità di trattamento dell’aria, le vasche per il trattamento dell’acqua, l’officina – e stava infilando la paglia di riso nella trebbiatrice insieme al capo medico della squadra, Winston Barr, il cui turno prevedeva che svolgesse delle funzioni agricole quella mattina (una pausa felice in una circostanza infelice) quando Roberta si era distratta smarrendo il senso di quello che stava facendo.

La trebbiatrice, la stessa che si usa ancora adesso, aveva un piccolo cilindro in cui la buccia veniva separata dagli steli, Roberta stava cercando di disincastrare un’ostruzione quando il rullo si era impossessato della sua mano destra. Prima che il medico venisse allertato dalle sue grida e che spegnesse il macchinario, il danno era stato già fatto. Senza pensare, nel momento in cui lo shock aveva avuto la meglio sul dolore prevenendolo, Roberta aveva sottratto la mano e in quell’attimo un geyser di sangue era zampillato dal dito medio, schizzando tutta la trebbiatrice, la parete dietro, la camicia di Winston Barr che lui aveva lavato e finito di asciugare il giorno prima.

(Come faccio a saperlo? Il dettaglio sulla camicia volete dire? Me lo disse lui. In persona. E posso capirvi, è
uno di quei dettagli minori spesso trascurati che preservano il senso della nostra vita quotidiana, dal prosaico al tragico. E quello era un dettaglio tragico. Più che tragico: fatale per la missione.)

Due degli altri membri della squadra convocati con il walkietalkie mentre Winston cercava di esercitare pressione sulla mano e Roberta passava dal pallore al color cartapecora e dovette accasciarsi sul pavimento con la testa tra le ginocchia, si misero a scartare tra le bucce finché non trovarono il dito mozzato in modo che Winston potesse ricucirlo. Sapeva quello che stava facendo. Era capace, bravo con le suture e anche con il paziente, ma non era un chirurgo della mano e l’ambulatorio dentro non era un ospedale.

Tre giorni dopo, quando il dito che Roberta sollevò davanti al gabbiotto dei visitatori a beneficio di Mission Control e il miglior esperto di mani di Pima County per farlo esaminare ormai era diventato color sanguinaccio, Mission Control prese una decisione e chiamò l’ambulanza.

Il che equivaleva a interrompere la chiusura. Il che equivaleva a dare inizio a una valanga di merda. Sentite. Non vorrei sembrare troppo critico qui, ma capirete il mio punto di vista: che cos’è un dito mozzato rispetto alla sacralità della missione e al voto della squadra nei confronti del mondo? Niente. Se fosse successo a me, avrei dato via tutte le dita della mano, tutti e dieci i polpastrelli. Per Dio, se fosse stato necessario mi sarei amputato anche i piedi. Pensate che Shackleton si sia preoccupato delle appendici? O che lo abbia fatto Sir Edmund Hillary?

Ma non siete dei martiri, potrebbe obiettare qualcuno. Non siete davvero su Marte. Non è una questione di vita o di morte. Le persone lo dicono spesso – magari lo state dicendo anche voi adesso –, ma si sbagliano. Un giuramento è un giuramento: niente dentro, niente fuori.

E fu proprio in quel momento che le cose iniziarono ad andare a scatafascio. Roberta Bronlow rimase fuori per appena cinque ore e durante quel lasso di tempo – mentre andava e tornava in ambulanza dopo che le avevano pulito, ricucito e rifasciato la ferita all’ospedale – non aveva respirato più di circa cinquemila grosse boccate di aria di E1 e aveva preso solo una barretta ai cereali e una Coca-Cola, mica un’aragosta pregiata, mica caviale, bistecca al sangue o salsicce,
eppure non contava nulla.

Ogni istante venne fotografato e sbattuto in prima pagina su tutti i quotidiani del mondo, e quello fu solo l’inizio. Quando rientrò dentro, quando costrinse la missione ad aprire la camera di equilibrio per la seconda volta, aveva ben due buste con sé. Due buste! Che diavolo aveva in testa? Che diavolo aveva in testa Mission Control? Erano sulla Luna, erano su Marte, era una chiusura materiale, non una serra dalla quale si poteva andare e venire con nonchalance quando se ne sentiva il bisogno, e perché non ordinavano una pizza allora, dato che c’erano? Qualcuno vuole una Quattro stagioni? Una Doppio formaggio? No. Era tutta una farsa.

E qual era il contenuto di quelle buste? Medicine, pezzi di macchinario, bourbon, un cruciverba o l’ultimo disco del Re del Pop? Non lo sapeva nessuno. E nessuno lo scoprì, neanche io.

Da I Terranauti di T. C. Boyle (La nave di Teseo), 624 pagine, 23 euro

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter