ScorrettissimiLa cancel culture e la guerra culturale americana

Costanza Rizzacasa d‘Orsogna, in “Scorrettissimi" (Editori Laterza), racconta che negli Stati Uniti ci sono tutte le premesse per una guerra civile esacerbata dalle ideologie di destra e sinistra

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Ma che c’entra tutto questo, la possibilità di una nuova guerra civile, con la cancel culture? C’entra eccome, perché proprio le guerre culturali possono portare a una rottura del sistema democratico. Trent’anni fa, nel volume Culture Wars: The Struggle to Define America (Harper 1991), James Davison Hunter, sociologo dell’Università della Virginia, dove oggi dirige l’Institute for Advanced Studies in Culture, popolarizzò il concetto di «guerra culturale».

A quel tempo l’America era segnata dalla lotta tra una società liberal secolare, che spingeva per i cambiamenti, e una conservatrice, che fondava la propria visione del mondo sulle Sacre Scritture. Temi come l’aborto, i diritti gay, l’insegnamento della religione nella scuola pubblica: erano queste le «culture wars», espressione che fece breccia nel dibattito politico. Trent’anni dopo, dice Hunter, le guerre culturali si sono moltiplicate fino ad abbracciare tutta l’esistenza, si sono impadronite della politica, hanno creato una sensazione di conflitto perenne e una visione alla «The winner takes it all» del futuro del Paese.

In una recente intervista a Zack Stanton di «Politico», Hunter, che aveva approfondito l’argomento nel successivo Before the Shooting Begins: Searching for Democracy in America’s Culture War (Free Press 1994), sosteneva che le odierne guerre culturali mettono a rischio il futuro degli Stati Uniti. «Le guerre culturali», spiega, «precedono sempre quelle armate. Non portano necessariamente alle guerre armate, ma non esiste guerra armata che non sia preceduta da una guerra culturale, perché la cultura fornisce le giustificazioni per la violenza. È proprio dove ci troviamo adesso. La democrazia è sostanzialmente un accordo che non ci uccideremo per ciò che ci divide, ma ne discuteremo. E però oggi si iniziano a vedere, da entrambe le parti, segni di giustificazione della violenza, per esempio nel tentato colpo di Stato del gennaio 2021 per ribaltare la sconfitta di Trump, ma non solo».

Se nel 1991 la politica sembrava ancora uno strumento attraverso il quale risolvere le divisioni culturali, oggi essa è alimentata da quelle divisioni. Le guerre culturali hanno colonizzato la politica, con leader che cercano consenso aizzando la popolazione contro l’uso delle mascherine anti-Covid, o l’uso, da parte degli studenti transgender, del bagno del genere in cui si riconoscono anziché di quello di nascita (…) «Ma mentre sulla politica si possono fare compromessi, la cultura», dice Hunter, «è egemonica, riguarda ciò che è sacro: è una questione di verità morali supreme. È, insomma, di natura esistenziale».

E se la posta in gioco è esistenziale, se perdere vuol dire estinguersi, qualsiasi compromesso è impossibile. A destra come a sinistra. Ecco perché la sensazione, sempre più, è quella di essere in guerra.

(…) Centrale negli anni Settanta, Ottanta e Novanta, il dibattito sull’aborto è tornato ferocemente alla ribalta negli ultimi mesi, in vista (nel momento in cui scriviamo) della temuta decisione della Corte suprema sulla storica sentenza Roe vs Wade. A maggio 2022, dopo che una bozza dell’attesissima decisione, a firma del giudice conservatore Samuel Alito, diffusa da «Politico», sembrava confermare le paure che la Corte abbia deciso di ribaltare la sentenza che dal 1973 garantisce l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza a livello federale, l’espressione «guerra civile» ha registrato un balzo su Twitter e nelle ricerche su Google.

(…) È la «forever culture war», come la definisce sull’«Atlantic» Shadi Hamid, senior fellow della Brookings Institution e ricercatore di studi islamici presso il Fuller Seminary. «Mentre i repubblicani si riposizionano come protettori della classe operaia», scrive, «ogni polemica, ogni disputa, diventa una questione di identità, e la politica ne fa le spese. Tutto diventa una guerra culturale, anche ciò che ha ben poco a che fare con la cultura, come per esempio i tamponi per il Covid: tutto è diventato ormai parte di una battaglia apocalittica tra le forze del bene e del male. Tutto il mondo è una guerra tra attivisti di sinistra e di destra».

Una situazione acuitasi con Trump. Nel 2012, il 45% della popolazione americana riteneva che il primo problema del Paese fosse l’economia, nel 2017 quella percentuale era scesa al 10%. Mentre i democratici vivono un’emorragia di consensi nella classe operaia (non solo tra i bianchi, ma anche tra le comunità di colore e altre minoranze che li avevano storicamente appoggiati), la nuova destra vi vede un’opportunità. «L’istruzione, di cui oggi si parla moltissimo, era già un tema ai tempi di George W. Bush», ricorda sul «New York Times» l’editorialista conservatore David Brooks, «ma mentre allora se ne parlava in termini di budget e classi pollaio, oggi la questione è tutta incentrata sui valori e sulla cultura, e sotto la presunzione di neutralità si promuovono ideologie».

E porta l’esempio di quanto accaduto nella corsa a governatore della Virginia, dove il dibattito sull’istruzione era stato «abbastanza soporifero» finché si parlava di aumento della spesa, ma si era infiammato quando, nelle ultime settimane della campagna, il repubblicano Glenn Youngkin aveva preso di mira i valori e la cultura, lo studio (e il presunto insegnamento nella scuola dell’obbligo) del razzismo sistemico, cantori dell’esperienza afroamericana come Toni Morrison. «Il dibattito, insomma, in America, non è più su cosa funzioni ma su chi siamo. Tema su cui si fanno molti meno compromessi».

scorrettissimi cover

Da Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana di Costanza Rizzacasa d’Orsogna (Editori Laterza), 224 pagine, 18 euro

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