Sarà il punto debole di un eventuale (probabile?) governo Meloni. Non il solo! Ma la politica estera ed europea dalla quale poi discende tutto il resto, anche le questioni economiche, sarà il classico tallone d’Achille. Non basta che sulla Farnesina abbia messo gli occhi il forzista Antonio Tajani, amico del presidente dei Popolari Europei Manfred Weber. Non basta che la stessa leader di Fratelli d’Italia fin da adesso garantisca la netta collocazione filo atlantista e dica che sulla guerra bisogna essere “chiarissimi”. E che dall’opposizione abbia dato il suo contributo per non trasformare l’Italia nell’anello debole dell’Occidente, confermando lo stereotipo della nazione spaghetti e mandolino, cosa che in effetti anche Mario Draghi le ha riconosciuto.
Ieri alla Direzione del suo partito, che l’ha accolta con una standing ovation come se già fosse seduta a Palazzo Chigi, Meloni ha assicurato che lei sarà la garanzia («senza ambiguità») di una nazione affidabile sui tavoli internazionali e che non verrà mai meno il sostegno «all’eroica battaglia del popolo ucraino».
Vedremo se questo verrà scritto nero su bianco nel programma del centrodestra, con la firma in calce di Matteo Salvini. Dice al mondo di fidarsi di lei, che è pure presidente di quel Partito dei Conservatori europei dove gli egemoni polacchi sono i più antirussi del globo terrestre. Non bisogna preoccuparsi di Salvini e delle sue ambiguità con Mosca, dei suoi rapporti con l’ambasciata Russa che lo ha spinto a ritirare i ministri leghisti dal governo Draghi. La verità è che lo scoop della Stampa, dove si documentano i contatti tra Salvini e Mosca, con tanto di interessamento russo sul ritiro dei ministri leghisti, mette in imbarazzo Fratelli d’Italia. Lo stesso capogruppo Francesco Lollobrigida, il braccio destro nonché cognato di Meloni, ha precisato che certe vicende di carattere internazionale vanno chiarite. Poi gli alleati minimizzano: la Lega parla di fake news e i ministri Giorgetti, Garavaglia e Stefani affermano che sono cose marziane; per Forza Italia si tratta di invidia perché il centrodestra in poche ore si è messa d’accordo su chi farà il premier (il capo del partito più votato) e sulla divisione dei collegi uninominali.
A questo coro Meloni non si è unita. Nel suo intervento alla Direzione del partito non ne ha parlato, tranne quelle rassicurazioni di cui sopra della serie «con noi a Palazzo Chigi non c’è il pericolo russo». Anzi, è il messaggio agli addetti ai lavori, tutti dovrebbero ricordare che Fratelli d’Italia si è battuta strenuamente per evitare che al Parlamento europeo si formasse un unico gruppo con gli amici di Mosca, con i francesi di Marine Le Pen e i leghisti di Salvini. Il quale, quando era in auge e forte nei consensi, spingeva come un matto in questa direzione, proprio per fregare la Meloni.
Ora, se tutto ciò non bastasse per rassicurare sull’affidabilità internazionale di un governo a guida Meloni, la probabile futura premer fa sapere a chi di dovere che la delega ai servizi segreti non la lascerà certo in mano all’eventuale prossimo ministro dell’Interno. Indovinate chi vuole tornare al Viminale?
Bene, ma c’è un punto che fa crollare il castello di affidabilità e non sono i neofascisti, quelli che Meloni chiama «i nostalgici da operetta». È qualcosa di molto più invadente, preoccupante per la permanenza dell’Italia in Europa, con tutto ciò che ne consegue per i conti pubblici, per la collaborazione comunitaria. In sostanza, Meloni dovrebbe sconfessare, anzi ritirare, il disegno di legge costituzionale (sua la prima firma) che prevede la prevalenza del diritto interno su quello comunitario. Cosa che finora non ha fatto e non farà perché il suo modello è sovranista, nazionalista, come quello ungherese. E anche polacco. È il modello di un’Europa confederale e non federale. È l’idea che ci sono interessi nazionali che non possono essere trattati mai e poi mai, anche a costo di un frontale con Bruxelles. Bisognerà capire anche se a costo di ledere proprio gli interessi nazionali e perdere i soldi del Pnrr, un piano che discende dal Next Generation Ue. Ricordiamo che i Conservatori europei, di cui fanno parte i meloniani, si astennero sul fondo europeo di 750 miliardi di euro. Una volta al governo, Meloni farebbe come Budapest che usa la regola del voto all’unanimità per bloccare le decisioni comunitarie?
La prevalenza del diritto nazionale su quello comunitario non è patriottico se le aziende italiane non potranno più operare nel mercato unico europeo e se trasforma l’Italia di nuovo in un Paese osservato speciale. Come accadde con Silvio Berlusconi al governo tra il 2010 e il 2011. Al ministero dell’Economia c’era Giulio Tremonti, guarda caso tornato in auge con Fratelli d’Italia tra i papabili ministri.
Quella legge costituzionale potrebbe essere il cavallo di Troia nell’Unione Europea. E i voti per approvarlo Meloni li avrebbe se vincerà le elezioni del 25 settembre. E se vincerà con i due terzi dei seggi non ci sarà neanche la possibilità di fermarla con il referendum costituzionale.