ChapatiI sette eroi che scalarono la montagna degli dei

Il romanzo di Gioia Battista “I guardiani del Nanga” (Bottega Errante Edizioni) è tratto da una storia vera. Esploratori che si trovano alle prese con i muri ghiacciati del Nanga Parbat, la vetta pakistana gemella del K2, incrociando il proprio destino con quello di altri scalatori

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Che ci vieni a fare qui, my friend? I suoi occhi neri mi scrutano, cercano qualcosa. Io ci sono nato. Ma tu?

La sua domanda è la mia. Mi provoca reazioni contrastanti, mi catapulta contemporaneamente nel presente e nel futuro. Ma Pemba non mi dà il tempo di rispondere. Mi racconta questo, mi dice che ne vede tanti come me. 

Li vedo passare ogni anno, passano, si fermano, guardano, poche volte chiedono, come se sapessero già tutto. Non aspettano, salgono. Sempre vogliono salire, sempre scalpitano per arrivare su cima di montagna. Non importa se compagno sta male. Non importa se devono barare per arrivare prima di altra spedizione. Quelli che vogliono solo vetta, montagna lascia passare, non si mette a discutere con stupidi. Che si tengono i loro primati. Montagna si dimentica presto di loro, tanto mese dopo arriva qualcuno che fa meglio. 

Non è per questo che si sale? controbatto, deciso. 

Per migliorarsi e cercare sempre una strada nuova? 

L’alpinismo si fa con la testa e con gli occhi prima ancora di usare le gambe. 

Guardi il versante di una montagna per la prima volta e la vedi: la via che porta alla cima. Non puoi sbagliarti, è proprio lei. 

Inizi a studiarne il percorso, la lunghezza, l’altitudine. 

Immagini i campi intermedi. 

Analizzi i possibili pericoli, prepari il materiale. 

Solo dopo arrivano le gambe che ti portano su. 

Ma la cosa che gioca un ruolo essenziale è sempre la testa. 

È lei che comanda su tutto, è lei che interviene quando le cose si mettono male. Non è questa la vera sfida? 

Vera sfida, my friend? Pemba scoppia a ridere. Vera sfida non è vetta di montagna. Vera sfida è Campo Base. 

Fa una breve pausa e indica con un dito verso l’alto. Inshallah!

Facciamo che riesci ad arrivare su cima di montagna, bravo. Mettiamo caso che per farlo apri via nuova, well done, my friend. Diciamo anche che tu fai questo con mezzi leali: senza ossigeno, senza portatori… no dai, senza portatori no, tu non lascia Pemba solo a Campo Base… Anyway, vera sfida, my friend, non è piantare piccozza su cucuzza di montagna, vera sfida è tornare a casa.

La musica improvvisamente finisce, la frequenza radio è disturbata e si sente solo un rumore bianco. Per un attimo siamo in una bolla silenziosa e le sue parole risuonano lapidarie nella mia testa. Tornare a casa. Poi Pemba dà un colpetto sul cruscotto della macchina e tutto ricomincia. 

Il rumore mi travolge e non sono più sicuro di tutto quello che sta succedendo. Quando si parte tutti noi sappiamo che la vetta è solo la metà del percorso, perché poi c’è la discesa, ed è lì che si gioca tutto. Non immaginavo di sentirmi catapultato in un ragionamento così, senza acclimatazione, come se il mio corpo avesse bisogno di elaborare ciò che sta succedendo, ma a un ritmo più lento. Vorrei ringraziare Pemba per queste perle di saggezza, ma il problema è che devo salire lungo un muro di ghiaccio e roccia che arriva fino a ottomila metri e in questo momento, appena atterrato in Pakistan, mi sembra che tornare a casa sia il problema minore. 

Ma resto in silenzio, e non ho la forza di controbattere, perché ha ragione lui, e perché non riesco a trovare niente da dire in questo momento, solo una valanga di pensieri che inizia a rotolare a valle. Scalare il Nanga Parbat. Ma come mi è venuto in mente? 

Passo in rassegna mentalmente tutto l’anno appena trascorso, gli allenamenti, gli studi, il mio folle sogno.

Tutto per arrivare fino a qui, e ora davanti a me c’è un pakistano che dondola la testa e, portandosi l’indice davanti agli occhi, mi fa cenno di avvicinarmi.

Ti racconto storia. Storia di guardiani. Guardiani di Nanga. Ci sono uomini, my friend, ci sono uomini che montagna non dimentica. E chi arriva fino lì può leggere loro nomi sulla roccia. Quelli che restano di guardia, sulla montagna. Quelli che non tornano. 

Ne ho sentito parlare. Si trovano sulla strada che costeggia Campo Base.

Sono incisi su piatti di metallo. 

Sì, my friend, piatti che usano per servire il chapati. 

Il chapati?

Tu non sai cos’è chapati? Insh’allah!

Pemba inchioda improvvisamente in mezzo a un incrocio. 

Ma arrivano proprio tutti qui a Gilgit! Alpinisti che non sa cos’è chapati… Tu sa cos’è piccozza? Eh? E montagna? Montagna, quella cosa fatta a forma di triangolo che tu vuole cercare di salire?

Pemba inizia a imprecare mentre si forma una fila di macchine dietro di noi.

Cominciano a suonare i clacson e Pemba sbuffando riprende a guidare. 

Chapati è antica ricetta della nostra millenaria cucina. Tu vuoi sapere cos’è, eh? Tu curioso adesso. 

È pane. Pane che servono su piatti di metallo. Gli stessi su cui vengono incisi i nomi degli uomini che perdono la vita sulla montagna. 

Io immagina sempre questa scena, my friend, quando io porta chapati su piatto ad alpinista. Penso se guardando piatto, una volta finito il pane, lui vede solo riflesso di sua faccia, oppure legge già suo nome. Inciso là, sotto briciole di pane. Però parte lo stesso. Va su, e non torna. 

Arrivano ogni anno, mi dice Pemba. 

Da centinaia di anni…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I guardiani del Nanga“, di Gioia Battista, (BEE), 175 pagine, 15 euro