Tra pedoni e sentinelleIl Re bianco e l’ultima corsa contro il tempo di Antonia Scott

Sono i dettagli a fare la differenza in ogni scrupolosa pianificazione, che si tratti di una partita a scacchi o un attentato: nessun errore è concesso. Dopo “Regina Rossa” (Fazi Editore) e “Lupa Nera” (Fazi Editore), Juan Gómez Jurado torna in libreria con l’ultimo libro della trilogia, “Re Bianco” (Fazi Editore)

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C’è una regola non scritta della memoria ed è che questa tende a immagazzinare i luoghi che sono stati importanti per noi con alcuni errori di scala. Non serve altro che tornare nella camera della nostra infanzia, nell’aula d’università, per scoprire che quel luogo è molto più piccolo e ordinario di quanto ricordassimo. Noi possiamo non essere cresciuti di un millimetro, ma il posto si sarà irrimediabilmente rimpicciolito.

Vale lo stesso per il luogo in cui ti hanno implacabilmente torturato, proprio come scopre Sandra entrando. La minaccia, il buio, la paura e il trauma si sono diluiti. Si sono trasformati in lei.

Sandra si incammina verso il modulo della sala riunioni, passando davanti al modulo di addestramento senza degnarlo di uno sguardo. Invece di fare il giro attorno al MobLab parcheggiato accanto al laboratorio di Aguado, avanza lateralmente tra i due, perché non la vedano dalla porta della sala riunioni. Senza perdere il ritmo e senza smettere di canticchiare.

«Contarás las noches largas como serpientes, dormirás debajo de la cama otra vez», canta, a bassa voce. Quasi limitandosi a formare le parole con le labbra.

 

Quando raggiunge il suo obiettivo, lo costeggia lungo il fianco e si china accanto al macchinario che funge da condizionatore dell’aria. Lì, effettivamente, sono collocate le due bombole color verde, con le lettere e le avvertenze e l’adesivo con il teschio e le tibie incrociate in nero su sfondo giallo. Aguado ha fatto la sua parte. Lei deve solo girare le manopole.

Circonda il modulo, dal lato contrario, e si avvicina alla porta. Si affaccia alla finestrella di vetro. All’interno ci sono undici persone, attorno al tavolo da conferenza, con facce annoiate. Nessuno si accorge che lei sta arrotolando attorno alla maniglia dell’entrata una catena, che chiude con un grosso lucchetto. Non sembrano nemmeno accorgersi che dalla grata di aerazione fuoriesce una tenue nebbia color arancione. Una ricetta dell’ungherese, misto di bromoacetato di etile e iprite. Non ne era orgoglioso, tuttavia. Se non scoppia, che gusto c’è, diceva, con il suo accento pieno zeppo di vocali dolci e consonanti strascicate.

 

Sandra adora lo spasso, ma anche la praticità. Quando si gioca in casa e si hanno diversi mesi a disposizione per pianificare un attentato contro le forze dell’ordine, ci si può crogiolare nei dettagli, come è stato quando preparò la doppia esplosione contro la squadra che era andata a salvare Carla Ortiz.

In questo caso, fuori casa e con poco preavviso, bisogna rinunciare ai dettagli e limitarsi a portare a termine il lavoro. «Llamaré a la puerta, nos esconderemos, tiraremos piedras para no quedar bien», canticchia, appoggiata alla porta.Da dentro sente il primo grido di allarme.Le viene il capriccio – fisico, urgente, imperativo – di affacciarsi alla finestrella di vetro per contemplare con i suoi stessi occhi il risultato dei propri sforzi, ma è ancora presto. Qualcuno all’interno potrebbe essere armato, e non si fida troppo della solidità della finestrella. Per cui aspetta ancora qualche istante, dedicandosi a immaginare la scena.

I più vicini alla grata dell’aria condizionata non saranno stati i primi a notare qualcosa, dato che i sintomi cominciano dalla lingua. Si gonfia dentro la bocca, senti che ingombra il doppio del normale, avverti un sapore strano.

La perplessità cede il passo al panico quando noti che respirare sta diventando sempre più difficile, man mano che il gas velenoso comprime le vie respiratorie nel tragitto verso i polmoni. Quando cominciano a bruciare gli occhi e inizia a calare la quantità di ossigeno nel cervello, gridare è ormai impossibile.

 

Quelli che gridano sono quelli più lontani, perché vedono che la tua faccia ha preso uno strano colore rossastro e stai cercando di aprirti la camicia per provare a respirare. Nei casi più acuti, il sistema nervoso prende il sopravvento e ti porta a squarciarti la gola con le unghie, mentre perdi completamente la vista e ti accasci a terra.

A quel punto, quelli che circondano le prime vittime si sono affrettati ad aiutarle, a chiedere che succede, chinandosi accanto a loro. Dato che il gas è più pesante dell’aria, è la peggior decisione che avrebbero potuto prendere. I prossimi a cadere sono loro, abbattendosi sui precedenti, schiacciandoli con il peso del proprio corpo e i loro spasmi, accelerandone la morte.

I più lontani, quelli più vicini alla porta, hanno ancora dei preziosi secondi per reagire, soprattutto se erano in piedi.

Infatti, reagiscono.

Sandra nota che qualcuno spinge la porta, prima con forza, poi con disperazione. Un colpo, un altro, tre. La catena resiste, anche se Sandra ha calcolato male la distanza tra gli anelli, e quello che spinge dev’essere un uomo piuttosto forte.

La porta si apre di qualche millimetro.

Dalla grata non fuoriesce una quantità sufficiente di veleno da risultare pericolosa in quello spazio aperto alto sei metri. Tuttavia, Sandra percepisce un filo di odore.

Acido, metallico, corrosivo.

Le ricorda l’odore del liquido per pulire le armi. Quando il nitrobenzene scende lungo la canna, dissolvendo i resti di carbone, polvere e rame.

Sandra si allontana di un paio di metri, disgustata. Gli occhi le lacrimano un po’. Nulla di grave. È peggiore la delusione di non potersi godere lo spettacolo. Affacciarsi per guardare dalla finestrella è ormai escluso, per cui butta un occhio alla porta e un altro all’elenco di riproduzione sul suo telefono. Mette in loop la canzone che sta ascoltando – il brano 11 dell’album – dato che sembra la più appropriata.

All’interno della sala riunioni, i colpi sulla porta sono cessati. Saranno già tutti morti o in agonia, con una schiuma rosacea che sgorga a fiotti dalle loro labbra gonfie e sanguinolente. Il contenuto di quella schiuma è il tessuto mucoso dei loro stessi polmoni. Un’immagine che voleva osservare in diretta, ma ormai non potrà più farlo, grazie al volontario della porta – e al suo errore di calcolo sulla lunghezza della catena, ma non è il momento di fare autocritica.

Sandra ritorna, al ritmo del dialogo tra chitarra elettrica e batteria con cui parte la canzone, dalle bombole del gas. Chiude le manopole, così poi potrà almeno dare un’occhiata veloce. Una magra consolazione – non è la stessa cosa vedere il pallone dentro la porta e vedere come ci entra – ma è quello che è.

Si tira su giusto in tempo.

Lo sparo di fucile fa saltare il meccanismo dell’aria condizionata, nel punto esatto in cui si trovava la sua testa solo un secondo prima. Invece di attraversarle il cranio, rovina il lembo del suo impermeabile Burberry. Un’edizione limitata, in cachemire e seta, quattromila euro e passa.

La rabbia inonda Sandra, più che se lo sparo le avesse fatto saltare le cervella. Se così fosse, non si sarebbe accorta di quel guaio, alla fin fine. Reagisce istantaneamente, buttandosi a terra e rispondendo al fuoco.

 

Re Bianco“, di Juan Gómez Jurado, (Fazi Editore), traduzione di Elisa Tramontin, 400 pp, 18, 50 euro

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