Lucido distacco Ru Xiaofan dipinge fiori per ripulire la mente dal superfluo

Il pittore cinese, in mostra a Roma fino al 24 settembre, prende spunto da ogni elemento della realtà, senza dimenticare l’eredità dei maestri che l’hanno preceduto. Solo così può raggiungere il suo più nobile obiettivo: non ripetersi mai. Perché, in fondo, «siamo come bolle di sapone, leggere e che fluttuano nell’aria, anche se per pochi secondi»

Ivresse 醉酒颂, N°2

Ru Xiaofan nel 1983 lascia la Cina per trasferirsi a Parigi, dove si afferma come artista surrealista. Oggi è conosciuto soprattutto per la rappresentazione, nei dipinti come nelle sculture, di personaggi che hanno bouquet di fiori al posto dei volti. Le sue opere appaiono sempre delicate, a tratti bucoliche e oniriche, ma nascondono molti e più complessi messaggi, quasi un labirinto di significati e rimandi. I fiori del celebre ciclo dei “Cent Fleurs”, che sono il modo con cui l’artista riflette sul tema della libertà, fanno riferimento alla “Campagna dei cento fiori” con cui Mao Zedong, dopo il 1957, portò avanti una brutale e capillare repressione nei confronti della libertà d’espressione degli intellettuali in Cina. 

È perciò molto facile banalizzare il senso di questa ricerca artistica così raffinata. Per tale ragione, in occasione dell’apertura della sua prima mostra a Roma (“Les Menines in Pastoral”, fino al 24 settembre da ZooZone), abbiamo chiesto al pittore di raccontarsi e spiegarci il suo lavoro.

Ph: Sabino Maria Frassà

Cosa è importante per te come artista?
«L’arte è libertà. Per me è sempre stato fondamentale essere libero sia come persona, sia come professionista. La libertà, anche solo di vagare con la mente, è un tema in fondo sempre molto presente nei miei lavori. Non ha per forza un significato o implicazioni politiche, a volte per me essere liberi significa anche solo evadere dallo spazio e dal tempo».

Dopo vent’anni dall’inizio del famoso ciclo dei Cent Fleurs, continui a dipingere fiori. Originariamente queste opere erano un inno alla libertà e una critica alla repressione culturale cinese, oggi invece cosa rappresentano?
«In Cina in quegli anni non c’erano cento fiori, era ammesso un solo fiore: Mao. Il bello della natura invece è che ha infiniti fiori. Per me non ha il pensiero unico, con il pensiero unico non c’è la Civiltà. Me ne andai così dalla Cina per conoscere un nuovo mondo, smettere di fare l’insegnante ed essere un artista. Libertà è anche fare e diventare ciò che si vuole, non è così scontato in ogni parte del mondo. Tutto questo erano i miei “primi cento fiori”. 

Dipingendo i fiori, mi resi conto che amo tutto ciò che è vita, e quindi ho continuato a disegnarli. Sul mio tavolo in studio ci sono sempre fiori e molte volte parto da composizioni vere per ispirarmi. Oggi, però, i miei fiori parlano di un’altra libertà: la pulizia mentale. Dovremmo cercare di raggiungere quella libertà che ti permette di vivere senza ansie e vedere la realtà con un lucido distacco. Penso spesso alla cultura buddista, e credo sarebbe ora di tagliare i fiori che abbiamo in testa: abbiamo troppi pensieri».

Ivresse, 醉酒颂, N°3

Ansia e inquietudine fanno parte del tuo lavoro?
«Io sono la mia arte e la mia arte è me. Quindi, come per tutti, è un insieme di gioia e paura. Gli spazi da me dipinti rispecchiano molto questa mia convinzione del doppio: sono spazi chiusi e aperti, c’è una unione tra il fuori e il dentro. Credo però che si debba essere lievi: anche l’artista deve esserlo. Non a caso, oltre ai fiori ho spesso ritratto delle bolle di sapone, leggere che fluttuano nell’aria, anche se per pochi secondi».

Hai spesso dipinto queste bolle di sapone, simbolo della fragilità umana, in boschi fitti e oscuri. Perché?
«Nei miei boschi c’è anche tanta luce, tra stelle e luna. Di notte si sogna meglio. E poi la fragilità non mi fa paura. Lo siamo tutti. Le bolle di sapone sono una bella metafora di chi siamo oggi». 

Parli e dipingi come un vecchio saggio, come il maestro di uno dei tuoi dipinti, in mezzo alla foresta di notte.
«In questo dipinto (sarà in mostra a settembre alla Red Zone Arts di Francoforte, ndr) il maestro sogna e parla ai discepoli, ma è mezzo ubriaco. Rifletto molto e dipingo sui miei pensieri. In ogni caso non ci sono ideologie nei miei dipinti. Piuttosto, c’è nel mio gesto artistico l’unione di tanta storia precedente a noi: non vedo il mio lavoro distaccato dagli altri, siamo tutti il frutto di chi c’è stato prima e delle persone con cui viviamo. Chi è il maestro? Io ho avuto maestri, sono stato maestro (per lavoro) e, magari, i miei lavori ispireranno chi verrà dopo. Siamo – io e i miei lavori – bolle di sapone che chi sa dove andranno a finire». 

Ivresse 醉酒颂, N°1

So che hai una grande passione per Velasquez, a cui è ispirata la tua grande tela presentata a Roma. Tuttavia, mi sembra di vedere tante citazioni ad altri maestri del passato. Qual è il tuo rapporto con questi maestri e con la storia?
«Ottimo, perché tutto scorre. Io derivo dai maestri, e loro sono in me. Continuo a nutrirmi del loro lavoro, come della storia e di ogni cosa che mi circonda: politica, economia, società, tu, io, Roma. Cerco di farlo sempre nel modo più consapevole possibile. Amo Velasquez e amo Versailles, che ho fuso nell’ultima opera Les Menines in Pastoral. Ma mi affascina molto anche lo spazio e la prospettiva di Tiziano. Ho studiato tanto calligrafia e acquarello, ma amo l’olio, il punto di arrivo nel passato come anche nel presente. Amo la frutta e i fiori come li amava Arcimboldo o il surrealismo di Dalì. Ma io sono io, libero di nutrirmi di chiunque, di scegliere e di crescere andando in ogni direzione mi porterà il vento. Non mi ripeto mai, mi evolvo. Siamo bolle di sapone». 

Intervista fatta il 23 giugno e autorizzata dall’artista il 26 giugno. Un sincero ringraziamento a Viviana Guadagno e HH LIM

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