Con la moltiplicazione dei regimi autoritari stiamo assistendo in giro per il mondo a sincere regressioni nell’uso del patrimonio e dei musei, sensibili alle necessità propagandistiche dei vari despoti, a volte anche ai danni di Paesi vicini e su base imperialista. Che impatto ha il ritorno di questi meccanismi sull’attualità del pensiero post-coloniale?
Nel momento in cui parliamo, l’Ucraina è sotto le bombe e in Europa abbiamo visto scene che pensavamo di non vedere più: oltre ai massacri sulla popolazione, gli stupri, le torture, gli eccidi di massa, anche distruzioni di intere città e il trafugamento di opere d’arte. Edifici e centri storici stanno subendo pesantissimi attacchi e, ricordiamolo, anche se non esiste ancora una normativa specifica a riguardo, queste azioni sono dal 2016 sempre più assimilate ai crimini contro l’umanità dacché accompagnano il genocidio al fine di cancellare persino la memoria di coloro che vengono trucidati.
Sempre per rimanere a est, abbiamo visto negli ultimi anni un uso propagandistico del patrimonio culturale senza precedenti. Con l’obiettivo dichiarato di annullare la storia dell’Unione Sovietica, interi edifici e tessuti urbani sono stati sottoposti a un anacronistico ritorno al Sette e all’Ottocento, al fine di sovrapporre l’immagine della Russia zarista a quella del regime di Vladimir Putin. Ancora peggio, la chiesa ortodossa
russa si è prestata a fornire la copertura ideologica a questa operazione che, basata sul principio di una supposta superiorità spirituale e civile, carica di accenti misogini, razzisti e omofobi, si è tramutata presto in un’avventura imperialista.
Avremmo dovuto prestare più attenzione a queste derive culturali, forse, perché gli autoritarismi o i totalitarismi, prima che per via militare, gettano le loro basi nella propaganda e nella cultura con una riscrittura della storia e del senso del mondo, indispensabile presupposto per il dispiego delle armi.
È un fenomeno presente anche in altre aree del mondo?
Non molto diversamente sta succedendo in Egitto o in Turchia. A Istanbul, il Turkish and Islamic Art Museum riassume ormai la storia nazionale in una chiave religiosa opposta alla tradizione laica del Paese fondata da Atatürk. Una chiave coerente con la riconsacrazione islamica di Santa Sofia. Al Cairo, nel 2021, il presidente al-Sisi, la natura del cui regime è nota purtroppo ormai a tutti, ha avuto l’idea di traslocare le mummie dei faraoni contenute nel meraviglioso museo ottocentesco di piazza Tahrir in uno di nuova realizzazione, in un quartiere ai limiti dell’immenso centro storico. Qui, le ha collocate in una sorta di cripta, al di sotto di una sezione dedicata all’arte islamica – anch’essa realizzata dopo lo svuotamento del bellissimo museo ottocentesco del centro, già messo a ferro e a fuoco nel 2014 durante i mesi delle rivolte.
Come ha ben fatto vedere la parata con cui è stata organizzata la traslazione delle mummie, l’insieme del nuovo dispositivo serve a sottolineare la continuità della storia antica nel regime dell’attuale presidente e la sua intrinseca superiorità sulle altre. Sta pure ben spiegato sul sito del museo, che quella egizia «è la più antica civiltà della terra». In Cina il patrimonio culturale continua a subire manipolazioni non dissimili: dapprima pesantemente danneggiato durante la rivoluzione maoista, è stato poi ricostruito e falsificato estensivamente per farne il simbolo dell’aspirazione del regime verso una terziarizzazione dell’economia.
Dunque, il colonialismo non è una prerogativa soltanto occidentale?
No, è un universale antropologico, in cui l’Occidente ha purtroppo scritto molte delle pagine peggiori. Siamo chiari, quella di utilizzare il patrimonio culturale a fini di oppressione e con risvolti imperialistici è una tentazione insopprimibile perché, presa in senso lato, la nozione di colonialismo fa riferimento alla tendenza di tutti gli esseri umani a voler prevalere sugli altri per privarli, in nome di una supposta inferiorità, dei loro diritti e delle loro risorse. Non esiste un solo popolo che possa dichiarare di essere sfuggito a questo male. Il razzismo clanico dei popoli arabi è noto e arcinoto e lo sanno bene i cabili o i beduini nel Nordafrica, oppure le popolazioni della costa africana orientale, ridotta in schiavitù dagli omaniti.
Negli Emirati, le popolazioni autoctone dalla pelle più scura sono guardate con sospetto, perché si crede siano incrociate con gli africani che, tra il XVI e il XX secolo, lavoravano alla pesca delle perle. Il termine “Cina” significa “regno di mezzo”, universale superiorità che sta ben indicata nel relativo ideogramma e che si concretizza sulla supremazia degli Han sulle altre etnie. Poi ci sono i razzismi che conosciamo bene, quelli di una città o di una regione sull’altra, napoletani e milanesi, fiamminghi e valloni… se continuiamo non la finiamo più. E, più universale ancora, il colonialismo di tutti gli uomini, in quanto specie, sulla natura.
Se quello tragico delle nazioni europee deve servire oggi a qualcosa, dunque, non è soltanto nella giusta rescissione dei legami che ancora legano molte ex colonie ai loro vecchi padroni, ma anche nel renderci consapevoli di questa tendenza universale nel momento in cui organizziamo i nostri spazi sociali e culturali. Con particolare utilità nel momento in cui allestiamo i nostri musei e mettiamo in fila i documenti di una storia spesso costruita da una lunga tradizione propagandistica di stampo nazionalistico. I riferimenti al colonialismo, al post-colonialismo, all’anti-colonialismo, perciò, sono venuti negli ultimi decenni a indicare tutti quei processi di consapevolezza
– come dicono gli specialisti di «riflessività» – delle scienze umane rispetto a questi meccanismi sempre in agguato.
E tuttavia molti dei nostri musei sono nati come iniziative coloniali. Possiamo dire che questo passato sia oggi del tutto archiviato?
Nella gerarchia vittoriana delle collezioni anglosassoni si partiva dalla storia naturale – teatro dell’azione eroica degli uomini – quindi si passava alle raccolte antropologiche – i primitivi ancora oberati da una razionalità materialistica – e solo alla fine, all’apice della piramide, si trovavano l’archeologia e le Belle Arti, disposte sempre gerarchicamente, ovvero secondo una sequenza che desse conto della crescente capacità razionale e tecnologica delle società umane. Era precisamente a questo punto che si trovava il “paradiso” dell’industria, in cui la tecnologia riusciva finalmente a produrre in serie beni la cui produzione era costata in passato sforzi irripetibili.
Insomma, alla base della piramide trovavamo la natura limitatrice dell’azione umana e da sottomettere; in cima l’eclettismo accademico dell’Ottocento. Questa scansione, che affonda le radici in un’antropologia razzista, trova ancora oggi esiti inconsapevoli in tanti musei britannici e, con particolare enfasi in quelli del Commonwealth, rimasti come congelati alle loro origini. Una struttura in cui opera dunque il doppio limite del concetto ottocentesco di museo: da un lato, raccontare la storia dell’uomo come quella di un progresso contro la natura e, dall’altro, misurare questo progresso su criteri evoluzionistici funzionali all’Occidente e alle sue velleità egemoniche.
Fai qualche esempio, non tutti sono così noti…
Al Chhatrapati Museum di Mumbai, nato come Prince of Wales Museum of West India, gli animali e l’ambiente fisico e zoologico sono al piano terra, al primo piano le culture autoctone, all’ultimo piano, e cioè in cima alla piramide, l’archeologia e le Belle Arti dell’Occidente civilizzatore. Stessa cosa al National Museum di Colombo, in Sri Lanka. Oggi al British Museum non possiamo più apprezzare il rapporto gerarchico tra natura e cultura della Gran Bretagna vittoriana, perché le poche collezioni di storia naturale vennero traslocate già nel lontano 1881 in un istituto ad hoc, il Natural History Museum. Ma rimane una gerarchia molto evidente: al piano seminterrato sono conservate le culture extraeuropee, al piano terra le prime civiltà e al primo piano, in alto e sopra a tutto, la Grecia e Roma su una scala evoluzionistica rimasta inconsapevolmente intatta che contrappone l’uomo alla natura, valorizzando le società meglio capaci di piegarla ai loro fini.
Ma siamo sicuri che queste siano le più sostenibili, quindi le più intelligenti ed evolute? Come ci ha spiegato Descola, le tribù dell’Oceania o dell’Amazzonia sono state capaci di sopravvivere per migliaia di anni senza depauperizzare le loro risorse in base a un immobilismo ecosistemico stigmatizzato dall’antropologia razzista. L’Occidente in due secoli di “sviluppo” rischia di far saltare il pianeta. Mi rendo conto che può sembrare una provocazione, ma preso in astratto, quale dei due modelli è più “intelligente”?
E l’Italia?
Sui problemi del post-colonialismo è uscito da poco un libro di Marzia Pia Guermandi dal titolo Decolonizzare il patrimonio, che fa il punto anche sulle responsabilità presenti e passate del nostro Paese. L’Italia ha conosciuto avventure coloniali fortunatamente assai limitate e di breve durata, per quanto non poco violente, ma anzi tra le più cruente in assoluto. La loro brevità ha impedito a una museologia razzista di stampo universale di attecchire e ha lasciato gli italiani alle prese con un culto autoreferenziale della tradizione che, non facendo i conti con la scoperta del mondo, è rimasto per lungo tempo meno offensivo, ovvero ha gravato soltanto sulle forme di legittimità culturale perseguite dal potere nei confronti di popolazioni locali lasciate a lungo nell’inferiorità e nell’ignoranza.
Tranne sparuti musei coloniali nati dalla conquista della Libia in poi, è andata così almeno fino al fascismo e alla promulgazione delle leggi razziali, nel 1938.
Pochi sanno, in effetti, che il regime aveva il proposito di utilizzare l’Esposizione Universale del 1942 e l’edificazione del quartiere a essa consacrato, l’EUR, per creare un sistema espositivo centralizzato come quelli delle capitali ottocentesche del resto d’Europa, ma articolato sulle priorità ideologiche del totalitarismo. La struttura di questi musei sarebbe stata tutta incentrata sul contributo italico alla civiltà per una
superiorità razziale da dimostrarsi attraverso le arti. Sarebbe stato molto utile vedere all’opera questo dispositivo di propaganda, innanzitutto per sfatare alcuni miti circa l’apertura culturale del fascismo, in realtà spietato e opportunista anche in questo settore. Purtroppo, o decisamente per fortuna, la guerra lo impedì.
Come riscrivere allora la museologia, mettendo mano a questi nodi problematici, ma senza tuttavia dimenticarne la storia?
Beh, lo dicevamo all’inizio di questo dialogo. Negli ultimi decenni, stimolata dalla globalizzazione, la storiografia si è arricchita di nuove branche – la storia globale, la storia-mondo, la storia connessa – che hanno stravolto il racconto storico e influenzato non poco quello museale. Queste discipline hanno superato il nazionalismo dell’Ottocento e hanno ricucito i fili che legavano civiltà distanti tra di loro. Per fare un esempio che parli a noi italiani, hanno sottolineato come l’invenzione rinascimentale della prospettiva fu possibile grazie alla diffusione di testi di ottica islamica nell’Italia del XV secolo.
Su questi propositi sono nati veri e propri musei: per restare alla Francia, possiamo parlare del Musée des Confluences di Lione oppure del già citato Louvre di Abu Dhabi.
Nell’autunno del 2021, il Louvre di Parigi ha organizzato una mostra sulla circolazione dei materiali dell’arte, a dimostrare attraverso questa precisa categoria quanto interconnesse fossero le società del passato. Negli stessi anni, anche sul rapporto tra uomo e ambiente sono apparse nuove discipline di studio – la storia ambientale, la storia delle epidemie, la storia culturale del clima – che hanno chiarito con maggiore equilibrio e complessità i termini dell’interazione tra gli uomini, le culture e i loro ecosistemi, senza però determinare novità nei musei.
Pensiamo che importanza avrebbe, invece, raccontare le nostre collezioni anche da questo punto di vista. Non sono certo né l’unico, né il primo a dire queste cose. Un primissimo tentativo di affrontare questi temi data al 1973 e consiste in una uscita speciale della rivista «Icon», dal titolo Museums and Environment. Più vicino a noi, a Parigi, il Musée des Sciences Naturelles ha lanciato una serie di manifesti con tanto di illustri firmatari perché un approccio di questo genere si faccia strada nella comunità museale. Mi piacerebbe che quei piccoli testi divulgativi fossero finalmente tradotti e pubblicati in Italia.
Queste innovazioni, però, sono anch’esse il frutto della storiografia occidentale. Siamo sicuri riescano davvero a “decentrare” lo sguardo?
Come sempre avviene, il panorama del mondo globale è molto più sfaccettato e carico di paradossi di quanto non sembri. Abbiamo toccato anche questo tema all’inizio del nostro dialogo: uno dei segreti del successo dei musei in giro per il mondo sta nelle varie modalità con cui culture e società diverse se ne sono appropriati per promuovere idee di sviluppo e di crescita originali. Insomma, secondo concetti e processi alternativi all’interno di quell’orizzonte culturale e politico che ha preso il nome di “modernità” e che, come hanno dimostrato numerosi studiosi, non è patrimonio esclusivo dell’Occidente.
L’icona museale più potente di questa appropriazione è a mio avviso rappresentata dalla National Gallery di Singapore, installata nell’edificio
dell’ex tribunale coloniale britannico. Il museo vuole essere una rassegna enciclopedica dell’arte modernista del sud-est asiatico e quindi un centro di ricerca capace di inventariare e documentare movimenti e artisti che hanno interpretato in maniere alternative e complementari a quelle dell’Occidente l’espansione della società industriale. L’elemento più potente, però, sta nella trasformazione della sala delle udienze in una specie di gabinetto delle curiosità dove vengono esposti oggetti e pubblicazioni che documentano il punto di vista del colonizzatore sulle popolazioni locali. Il tribunale del potere coloniale si capovolge così in quello dei ricercatori del museo sulla teoretica razzista dei britannici.
Non è certo un dispositivo museologico consueto, questo, ma il museo vi mantiene in maniera originale la sua forza critica secondo modalità sconosciute in Europa o negli Stati Uniti.
Ma nella maggioranza di questi casi, le innovazioni scientifiche non sono comunque forme di appropriazione occidentale finalizzate a riassorbire abilmente ogni pensiero critico?
Non dimentichiamo che moltissime delle innovazioni storiografiche e critiche di cui parlavamo più in alto e che hanno portato alla fondazione di musei di un genere nuovo, dal Louvre Abu Dhabi a quello des Confluences, oppure all’Humboldt Forum di Berlino su cui si sta lavorando seppure in mezzo a mille polemiche, sono dovute a intellettuali e storici non occidentali e che proprio in virtù della loro provenienza hanno provocato terremoti nel dibattito scientifico. Fondatore dei post-colonial studies fu un palestinese, Edward Said; uno dei maggiori torici del post-colonialismo è l’indiano Homi Bhaba; l’ideatore della storia connessa è un altro indiano, Sanjay Subrahmanyam, interpellato da numerosi musei in giro per il mondo; oggi è consulente del museo di Islamic Art di Doha una delle più originali antropologhe e delle più radicali esponenti del post-colonialismo femminista, la palestinese Lila Abu-Lughod. È vero, insegnarono o insegnano tutti nelle più prestigiose università americane, ma la capacità dell’Occidente di dare spazio al dibattito critico e autocritico o di rimettersi in discussione può essere non sempre adeguata ma non è necessariamente una colpa.
Qualcuno ci ha visto una forma abilissima di neocolonialismo per cui ci si approprierebbe anche del dissenso, impendendo così il conflitto e rimanendo egemoni, ma a giudicare in questo modo si entra in un terribile circolo vizioso. Direi piuttosto che neanche l’Occidente di oggi è più quello del XIX secolo. Non è bianco e cristiano, ma meticcio e multiculturale, e per questo capace seriamente di critica e di rinnovamento come mai in precedenza.
La vera sfida, in realtà, viene dai nuovi regimi dispotici e dall’uso strumentale che stanno facendo della cultura. E siccome i musei, come il patrimonio culturale, producono rappresentazioni che vanno di pari passo con i modelli economici e sociali, è interessante notare come in alcuni di questi Paesi la loro trasformazione accompagni la regressione dei modelli tipici della democrazia industriale. In Russia, per tornare a questo esempio particolarmente significativo, l’investimento sulla riqualificazione del patrimonio tradizionale ha perseguito il fine di farne luoghi principeschi mentre una élite dedita a una corruzione che viene dal mercato finanziario ed energetico si autocelebrava come il ritorno della Russia degli Zar.
E l’America Latina, l’Africa in tutto questo?
Un caso a sé e interessantissimo, è quello dei musei dell’America Latina dove, grazie a una presenza rigenerante del pensiero antropologico vengono spesso raggiunte vette di sofisticazione intellettuale e metodologica, anche se per assenza di fondi o di iniziativa pubblica non trovano poi corrispettivi museografici all’altezza. Pensiamo intanto a quella meraviglia che è il Museo Nazionale di Antropologia di Città
del Messico, dove su due piani sovrapposti vengono messe in parallelo le vicende delle stesse popolazioni prima e dopo la cristianizzazione. È una creatura perfetta dei lontani anni Sessanta ma ancora oggi molta della riflessione scientifica intreccia nel mondo latinoamericano tematiche ambientali e culturali in maniera originale, sostenuta dal fatto che la maggior parte delle istituzioni museali coincidono qui con centri di documentazione impiantati su siti archeologici, integrati nelle condizioni ambientali che hanno reso possibile le civiltà che documentano.
Alcuni teorici, come Arturo Escobar, si spingono a costruire, per esempio, una prospettiva più ambiziosa della post-colonizzazione che definiscono di «decolonizzazione», basata sul recupero di una piena autonomia scientifica dagli istituti di ricerca dell’Occidente europeo,
cioè, e invitando alla rinascita di alcune forme economiche e sociali sostenibili tipiche delle popolazioni antecedenti il colonialismo. Siamo al vero superamento – raffinatissimo – dell’ideologia positivista che, silenziosamente, insinua crisi nell’istituzione museale dei nostri giorni. In Africa, tra i tanti, influentissimo è il contributo teorico del già citato camerunense Achille Mbembe, schierato tra i critici della nozione di post-colonialismo, in quanto a suo avviso non terrebbe conto dell’impossibilità di cancellare del tutto le forme culturali introdotte dalle esperienze di sopraffazione del XIX e del XX secolo.
Mbembe, che insegna in Sudafrica, costituisce oggi il riferimento per molte sperimentazioni curatoriali in giro per il mondo, come la mostra del 2015 al MACBA di Barcellona, Narratives and Ghosts from The International Art Exhibition for Palestine, 1987, a cura di Rasha Salti e Kristine Khouri. Ma ripeto quanto abbiamo detto al capitolo precedente: per essere “post-coloniale”, in senso ancora più ampio, la nostra museologia deve prendere in conto l’oppressione esercitata dagli uomini sulla natura.
In Italia cosa implica un approccio post-coloniale alla storiografia e alla museologia?
Comincerei con il dire che la storia italiana è stata tutta scritta nella prospettiva dei vincitori dell’unificazione. Lo abbiamo già affrontato questo nodo e quello dell’emarginazione della storia meridionale, vista come un caso a sé perché non funzionale alla narrazione nazionalista post-unificazione. Continuerei con la necessità di ricostruire le radici globali della nostra storia, riconoscendo e indagando gli apporti venuti
dalle altre culture, a cominciare da quella islamica senza la quale lo stesso Rinascimento non sarebbe stato possibile.
Volterei pagina con un’idea ancora antiquaria e settecentesca dell’antichità classica quale modello insuperato di perfezione, tale da risorgere dalle sue ceneri in virtù della sua intrinseca potenza formale. Guarderei a quel punto alle forme della reinvenzione e della strumentalizzazione teologico-politica dell’antico, avvenute durante tutta la storia culturale della penisola. Poi, approfondirei le microstorie e quelle delle diverse minoranze oppresse, le donne, che minoranza in realtà non sarebbero, gli omosessuali, gli ebrei, le comunità protestanti,
il loro livello di consapevolezza specifica e il loro contributo globale alla cultura italiana. Poi la natura, in un Paese dove è oppressa e devastata come in pochi altri luoghi d’Europa.
Come spieghi i fenomeni di iconoclastia degli ultimi tempi che, sulla scorta del movimento Black Lives Matter, hanno visto negli Stati Uniti la distruzione di monumenti, statue, hanno messo in discussione le classi dirigenti di istituzioni museali tra le più importanti al mondo, a volte portando addirittura alle dimissioni di curatori e direttori? Hanno a che vedere con la capacità o l’incapacità dei musei di svolgere questo ruolo?
È stato, a mio avviso, il fallimento generale dei musei americani come sistema, perché percepiti quali istituzioni di una minoranza, incapaci di far evolvere nella società lo statuto stesso del patrimonio culturale. Un problema che, se non interveniamo in tempo, potrà prodursi in futuro anche da noi.
Per capire come siamo arrivati a questo punto, vale la storia tutta particolare delle collezioni americane, nate quasi tutte su iniziativa di privati che, accaparrandosi antichità e Belle Arti europee, vollero presentarsi alla società del nuovo mondo quali rappresentanti delle aristocrazie del vecchio continente e dei loro valori. Se questi musei sono nati come strumenti di egemonia sociale, pensiamo all’effetto che possono produrre al cospetto dei nativi americani e degli afro-americani, oppure al potenziale colonialista e razzista che rappresentano per i
popoli espropriati delle loro terre o oppressi da quelle élite che ancora siedono nei consigli di amministrazione o nei posti da curatori, determinando una programmazione filo-europea che niente ha a che vedere con la composizione e con la storia reale delle società americane.
Se fino a qualche anno fa questi musei potevano essere percepiti come fossili autoreferenziali rivolti a una minoranza, la riattivazione del linguaggio razzista che ha caratterizzato la presidenza Trump ne ha risvegliato il potenziale offensivo e ha provocato il rigetto.
Un rigetto che è diventato iconoclastia per quanto riguarda i monumenti pubblici, quelli sulle piazze e sulle strade degli Stati Uniti…
Il discorso è esattamente lo stesso: ciò che è successo per i musei, è avvenuto per larga parte del patrimonio monumentale pubblico legato a una storia potenzialmente divisiva e mai opportunamente rigenerato sotto il profilo culturale.
Se i musei, invece di essere strumenti di propaganda dei valori estetici – e quindi politici – delle loro collezioni, avessero lavorato come strumenti di emancipazione, cioè avessero avuto il coraggio di denunciare la storia e la natura culturale dei beni che custodivano e le ragioni per cui vennero acquistati e trasformati in simboli di una inaccettabile supremazia sociale e razziale, tutto ciò non sarebbe probabilmente accaduto.
In cosa questa situazione parla anche a noi e di noi? Forse in Italia dobbiamo aspettarci qualcosa di simile?
Direi che nessuno è al riparo. In Italia il rischio di un ruolo divisivo del patrimonio non mi sembra immediato. Ma quando vedo che le scolaresche sono composte in gran parte da giovani con origini ramificate in giro per il mondo, mi chiedo in cosa questi ragazzi possano vedersi rispecchiati da una cultura e da una società che nell’ultimo secolo si è continuata ad autorappresentare come monolitica, monoconfessionale e monoculturale.
Per fortuna che c’è la ricerca scientifica a ricordarci come il nostro Paese sia stato da sempre un luogo di incroci e di meticciati che possiamo ritrovare sui volti degli italiani: i siculi normanni con gli occhi azzurri, i greci e i turchi di Puglia, gli arabi che riscopriamo per le
strade di Palermo, di Napoli o di Reggio Calabria, gli ebrei sefarditi delle comunità di Roma e di Firenze, scappati dal- la Spagna intollerante e antisemita di Isabella di Castiglia, i popoli balcanici che abitano il Veneto e il Friuli, le cui origini risuonano nelle inflessioni dialettali… E poi ci sono gli “stranieri” che hanno fatto la storia della nostra penisola o che l’hanno attraversata: dagli imperatori illirici a quelli venuti da Oriente, oppure agli africani come Sant’Agostino.
Una bellissima mostra del 2021 al Mudec di Milano tratta proprio della presenza muta dei neri nella cultura italiana tra il XVI e il XIX secolo.
Da Voltare Pagina. Se i musei sfidano le crisi globali di Simone Verde con Paolo Conti, Baldini+Castoldi, 144 pagine, 19 euro