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Una finestra sul mondoModelli di lavoro ibridi e persone al centro: le coordinate per orientarsi nel lavoro che verrà

Per comprendere in profondità cosa sta accadendo nel mercato, The Adecco Group ha deciso di osservare da vicino quattro tra i settori più rilevanti nel nostro Paese. Il primo evento, dal titolo “Quale orizzonte per i modelli ibridi nell’era della Great Resignation?”, è stato dedicato al mondo Life Science.

di Austin Distel, da Unsplash

Riorganizzazione degli spazi, maggiore attenzione alla conciliazione con la vita privata, dimensione ibrida, transizione ecologica e digitale. Sono solo alcuni dei grandi cambiamenti che stanno attraversando il mondo del lavoro, stravolto dall’esperienza pandemica.

Come sarà allora “Il lavoro che verrà”? Per comprendere più in profondità cosa sta accadendo nel mercato del lavoro, The Adecco Group ha deciso di osservare da vicino quattro tra i settori più rilevanti nel nostro Paese, con altrettanti incontri dedicati: Life Science, Public Sector, Food Service e Banking.

Il ciclo è iniziato il 12 luglio con un evento dedicato al settore Life Science. “Quale orizzonte per i modelli ibridi nell’era della Great Resignation?” è stata la domanda che ha aperto il dibattito. Al primo appuntamento, moderato da Andrea Zirilli, VP Sales Italy di The Adecco Group, hanno partecipato Giacomo Maida, National Industry Leader di The Adecco Group, Laura Bruno, HR Head di Sanofi Italy, Valentina Figna, HR Director di Roche Diabetes Care Italy e Alfredo Parato, HR Country Head di GSK Italy. 

La ricerca dell’equilibrio nella dimensione ibrida
Il settore del life science, già prima dell’emergenza pandemica, stava sperimentando forme di lavoro smart. Come racconta Laura Bruno: «In Sanofi, già dal 2014, abbiamo cominciato a lavorare in modalità agile e la pandemia ha dato un’ulteriore accelerata a un processo già in corso». Il che ha significato «per le persone una totale responsabilizzazione verso i risultati e, per i manager, il passaggio da un ruolo di organizzatori a uno di sviluppatori di strategie».

Ma pur essendo preparati allo smart working già prima della pandemia, «con l’emergenza abbiamo capito che, su alcuni aspetti, c’erano margini di miglioramento», spiega Alfredo Parato. «Pensavamo che alcune attività non si potessero svolgere efficacemente da remoto, invece ci siamo ricreduti, abbiamo capito che si possono svolgere molto bene. Per altre, invece, è decisamente meglio essere in presenza. Quindi stiamo cercando di riorganizzare le attività attraverso un modello completamente ibrido, in cui l’azienda dà il framework di lavoro e ciascuno, con il proprio team, definisce quali sono le modalità più appropriate».

Insomma, non si tratta solo di alternare lavoro in presenza e lavoro da remoto. Ma «è un cambiamento più profondo che ha a che fare con l’organizzazione del lavoro», sottolinea Valentina Figna. «Oggi l’aspettativa è che le persone lavorino in rete e siano in grado di collaborare, rompendo i silos organizzativi verticali». E in Roche, per arrivare a gestire al meglio la nuova organizzazione, «abbiamo pensato che fosse importante anche creare un dialogo con le persone, realizzando dei focus group. L’equilibrio tra lavoro in presenza e a distanza è la carta vincente per evitare il rischio di solipsismo dei lavoratori».

Riorganizzare gli spazi con le persone al centro
Ovviamente anche gli spazi di lavoro non sono rimasti immuni al cambiamento. Sanofi, ad esempio, ha optato per una rotazione della presenza fisica del personale al 50%. «Stiamo organizzando gli uffici in activity based workplace, quindi rivedendo completamente le nostre aree», spiega Laura Bruno. «Abbiamo lavorato a un progetto di change management con la metodologia del marketing delle persone, ridefinendo le attività e spingendo verso una modalità di lavoro agile sempre più incentrata su obiettivi e gruppi di lavoro».

GSK, invece, durante la pandemia ha spostato la propria sede, che è stata «completamente ridisegnata secondo una visione di modello ibrido», spiega Alfredo Parato.

Giacomo Maida parla a tale proposito di «democratizzazione degli spazi di lavoro», che a sua volta «ha creato una democratizzazione nella gestione delle relazioni in azienda. Inoltre, il lavoro ibrido aggiunge un ulteriore elemento di attenzione e complessità nella gestione delle relazioni. Per questo i dipartimenti HR hanno la grande responsabilità di supportare questo cambiamento attraverso il coaching e il training per i manager, ma non solo, per far sì che venga trasferito il purpose dell’azienda anche a chi si trova a distanza». 

La Great Resignation e i talenti
Azioni che si rivelano centrali, soprattutto in un momento di grande rimescolamento del mercato del lavoro, con le dimissioni volontarie in aumento anche in Italia e gli alti tassi di turnover aziendale. Dopo l’esperienza pandemica, in tanti hanno rivalutato il ruolo e il senso del lavoro nelle proprie vite. E, complice il nuovo dinamismo del mercato in ripresa, aumentano le transizioni occupazionali.

La domanda, quindi, è: come trattenere e attrarre i talenti? Per Parato, «il primo aspetto è la valorizzazione del purpose perché la persona senta di aderire, con il proprio progetto individuale, a un più ampio progetto organizzativo». A questo si aggiunge la necessità di «creare un ambiente che concili esigenze personali ed esigenze di lavoro, dando la possibilità di esprimere la miglior parte di se stessi nell’organizzazione».

Il che vuol dire prefigurare percorsi di sviluppo individuale. Non necessariamente verticali, ma anche e soprattutto orizzontali, tra figure e ruoli diversi. Come spiega Laura Bruno, «in particolare le nuove generazioni sono sempre meno attratte dal job title e dal grado, e sempre più interessate ai percorsi di crescita in termini di competenze quanto più diversificate».

Lo spiega bene anche Valentina Figna: «Le persone hanno bisogno di rigenerarsi attraverso l’acquisizione di nuove competenze, coprendo anche ruoli differenti in azienda. La specializzazione estrema finisce per annoiare, soprattutto le nuove generazioni. Quindi è importante creare occasioni di apprendimento anche al di fuori delle zone di comfort».

Ma un elemento dirimente nella scelta della posizione lavorativa, come spiega Giacomo Maida, è anche la flessibilità nell’organizzazione del lavoro: «È una richiesta sempre più esplicita da parte dei lavoratori e anche da parte dei candidati in fase di colloquio.»

Flessibilità che, naturalmente, deve riguardare tutta la popolazione aziendale, maschile e femminile. «Bisogna partire dall’assunto che tutti i lavoratori sono potenzialmente care giver – sottolinea Valentina Figna – bisogna parlare, ad esempio, di genitori e non solo di mamme».

Perché l’altro elemento da non dimenticare è proprio la dimensione della diversity, equity e inclusion che oggi, soprattutto per le nuove generazioni, è elemento fondante nella valutazione delle aziende in cui lavorare.

Anche da qui passa il cosiddetto «engagement», che significa riconoscersi nell’azienda e sentirsi apprezzati. E per raggiungere questo obiettivo, «bisogna creare una cultura aziendale che esalti il dialogo. Soprattutto in contesti in cui il lavoro si remotizza sempre di più, l’aspetto umano è sempre più intimamente connesso con la cultura aziendale», spiega Giacomo Maida.

Per le organizzazioni, significa mettere la persona al centro. «Le persone vogliono stare bene, trovare un senso in quello che fanno», afferma Laura Bruno. «Ma anche avere flessibilità, autonomia, possibilità di esprimersi con competenze diverse e, soprattutto, richiedono e vogliono poter dare feedback. Questo significa fornire ascolto ed essere ascoltati». 

La centralità delle risorse umane
Per raggiungere tutti questi obiettivi, chi gestisce le risorse umane ha quindi una grande responsabilità. Non più slegata dal business vero e proprio. «La people strategy deve entrare nel business plan come leva strategica», dice Valentina Figna. «Serve una co-creazione della strategia, aperta alla partecipazione delle persone. Certo, il rischio è di trovarsi davanti a tanti “io” diversi. La funzione dell’HR è proprio quella di creare un “noi” in cui ciascuno possa portare la propria voce».

Non più «business partner, ma people partner», le risorse umane – spiega Maida – «dovranno mettere la crescita della persona al centro, perché questa a sua volta si riverbera sul business». Come sottolinea Parato, «se l’individuo riesce a esprimere al meglio se stesso, anche l’organizzazione ne trae beneficio». 

E questo significa anche lavorare sulla formazione e l’employability interna, con piani di upskilling e reskilling. Senza dimenticare però di guardare anche a ciò che accade nel mercato. Ad esempio, con una formula come l’early engagement attuato da GSK. Che significa, spiega Parato, «avere, a prescindere dalle posizioni aperte, un dialogo costante con i professionisti presenti sul mercato, in modo da ingaggiarli e poter quindi reagire rapidamente in caso di necessità. È una finestra da cui osservare il mondo».

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