Bilohorodka, Giorni 6-7La scheggia di proiettile e la necessità di fare caso a quando siamo felici

Dei progetti di pochi mesi fa in Ucraina rimane poco, a volte solo cenere, così come delle case nei dintorni. Ma dopo un anno, nonostante tutto, ritrovo con i miei amici la forza di sorridere

La strada da Ivankiv verso la casa dei miei amici passa per quei toponimi che ormai sono per sempre nella storia – Borodyanka, Bucha, Irpin’. Prima di arrivarci passiamo per le zone boschive, dove ai cigli della strada ci sono gli accampamenti abbandonati dell’esercito russo: nella terra sono scavate le trincee, piene d’acqua per le piogge che quest’estate cadono sul nord dell’Ucraina. Gli alberi attorno sono spaccati a metà dai proiettili, alcuni sono tagliati per costruire quelle bislacche tettoie, costruzioni mostruose, che rimarranno lì, come schegge nella mano, come pugni nell’occhio ogni volta che le vedi. L’autostrada, una volta nuova e liscia, è incavata da quei lunghi segni neri, dovuti alla marcia infame dei carri armati russi verso la capitale.

Da ambedue i lati dell’autostrada ci sono le sagome degli edifici bruciati e abbattuti. Erano le case di qualcuno, erano le vite di qualcuno. Erano quei momenti felici di acquistare quella casa, di mettere il proprio cognome sul citofono, orgogliosamente accendere un mutuo, anche per trent’anni. Ora di quel piano per il futuro, di quella vita programmata a rate, non rimane più niente, tranne che la cenere. I proprietari saranno da qualche parte in Polonia o in Italia a reinventarsi qualche esistenza.

Ci fermiamo davanti a un’area di servizio, davanti a quella che era una volta l’area di servizio con un albergo “Il giardino della nonna” del quale rimane solo un’insegna bruciata a metà. Scopriamo di aver bucato la gomma posteriore e corriamo verso la prima area di servizio aperta. In trenta minuti i bravi ragazzi chiudono il buco, estraendo dalla gomma una scheggia di un proiettile. E non siamo i primi e non saremo gli ultimi a bucare le gomme con le schegge di un proiettile in questi posti, dove la guerra non è più il presente, ma per anni e anni in avanti sarà il futuro a lungo termine.

Nel pomeriggio usciamo a fare un giro nel verde di agosto, che rimane ancora verde per le piogge e la temperatura mite di quest’estate, e i campi minati con le scritte a mano sui pali “Mine”. Tutti i cani in giro fanno festa alla mia amica, perché è stata lei a salvargli la vita, ognuno ha il suo nome, ognuno è vaccinato e sazio.

All’ingresso nel villaggio compriamo la frutta fresca da una signora del posto, anche se ne abbiamo abbastanza perché l’abbiamo portata in bagagliaio dall’orto dei miei, ma la compriamo per sostenere la signora e il nipote che le sta dando una mano. Prendo un mazzo dei fiori, le floghi, quelli preferiti di mio nonno.

Al rientro troviamo in casa un loro amico, è un pediatra e si chiama Josyp, sarebbe Giuseppe in italiano. Josyp tiene la scheggia estratta dalla gomma e ci racconta che nel loro ospedale estraevano queste schegge dai corpi dei bambini che resistevano orgogliosi alla procedura.

Salutiamo Josyp e in silenzio ci mettiamo a preparare la cena. Il giorno sta per finire con un tramonto di un arancione veemente che accarezza i quadri sulla parete, le cartoline portate dal Nicaragua e dagli Stati Uniti, i bossoli raccolti per terra sistemati su una mensola con altre cianfrusaglie, e ora c’è anche la scheggia di proiettile che ha bucato la gomma. Un giorno dell’estate 2022 che muore lentamente, anche se qua intorno nessuno percepisce l’estate come estate. In questo giorno abbiamo parlato di nient’altro che di guerra e delle visite mediche che sta facendo la mia amica per curare la guerra nel suo corpo.

Sono stata in questa casa esattamente un anno fa, nell’agosto 2021. Anche i miei amici erano da poco diventati i proprietari di questa casa, erano contenti e orgogliosi di mostrarmi ogni angolo, pensato e organizzato a modo loro. Anche un anno fa abbiamo passeggiato, abbiamo preparato una cena, poi abbiamo riempito il fiaschetto di whisky e siamo andati a prendere quel digestivo sul lungolago che si vede dalla loro finestra. I russi non sono riusciti ad attraversare il lago e il fiume, che quindi hanno salvato il paesino dall’occupazione, ma non dall’orrore delle esplosioni e degli incendi che hanno visto e sentito per più di un mese, giorno e notte. Siamo stati svegli parecchie notti insieme, loro a Bilohorodka, io in Italia, a scriverci di notte, perché il mio amico era in giro con la pattuglia e la mia amica e la sua gatta da sole impaurite nello scantinato.

Anche adesso usciamo a fare un giro dopo cena e prima del coprifuoco, senza però il fiaschetto. L’aria è fresca e il villaggio è deserto.

Alla fine, senza nemmeno essere riscaldati con il whisky, troviamo qualche ricordo che ci fa ridere, di quando io e la mia amica siamo andati nel 2012 a Berlino per portare dieci bottiglie di spumante ucraino nel bagaglio messo in stiva per una festa importante nel mondo del cinema internazionale. Ne abbiamo rotta una sola, grazie alla nostra bravura nel fare le valigie, ma è bastata a bagnare tutti i vestiti che avevamo. Ci abbiamo messo un po’ per lavare via quella fragranza “brut” dalle maglie e dai pantaloni a metà febbraio. Ridiamo con le lacrime agli occhi, ridiamo e ci abbracciamo, ridiamo e diventiamo più forti.

In quel viaggio a Berlino avevamo 26 anni e ora ne abbiamo tutte e due 36 e non abbiamo più nessun piano per il futuro, nessuna vita a rate. Perché siamo già contente e felici di avere quello che abbiamo in questo momento.

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