Leopoli-Kyjiv, Giorno 3L’arrivo nella capitale e il cuore che batte come per la persona che si ama

Dopo otto ore di treno che in alcuni punti procede a passo d’uomo, arrivo alla stazione: sono travolta dalle emozioni ma il coprifuoco e il suono della sirena mi riportano subito alla realtà

AP/Lapresse

Non so se per un giorno intero si possono calcolare le otto ore passate in treno da Leopoli a Kyjiv. Sul binario più bagagli che passeggeri. Gli ucraini sfollati rientrano nelle loro case dall’estero o dall’Ucraina occidentale con le valigie e i loro animali domestici, altrettanto sfollati, altrettanto traumatizzati. Ma non sono loro i veri protagonisti di questo addio. Sono i militari, che salutano mogli e figli, i militari con le fasce alle gambe sono venuti alla stazione in attesa di un compagno in licenza. Leopoli saluta tutti con la pioggia fitta.

Il treno viaggia lento. Da Leopoli a Kyjiv in tempi normali ci mettevamo circa cinque ore, adesso sono otto ore senza soste, senza entrare nelle città. In alcuni posti il treno viaggia a passo d’uomo. Riesci perfino a distinguere il nero dei semi dei girasole, adornati dal giallo intenso nei campi, tra una città e l’altra, tra un verde e l’altro. Sulle fermate i cartelli: buon viaggio! Slava Ukraini! Bandiere e colori della bandiera ovunque. Le distruzioni non si vedono da queste parti. Controllo sull’app dove mi trovo e sono un piccolo punto blu nel verde della mappa che si avvicina alla capitale.

Nello scompartimento siamo in sei, siamo tutti gentili l’uno verso l’altro e siamo tutti in vibrante attesa dell’arrivo a Kyjiv. Manca un’ora e siamo nei pressi di quelle zone dove i kyjiviani avevano le seconde case, dove scappavano dalla calda capitale estiva per coltivare il loro orto per poi magari rimanerci per sempre. Borodyanka, Klavdievo, Bucha, Irpin’.

Il treno rallenta a Bucha, in lontananza si vedono alcune case malconce, con i detriti raccolti in un angolo del cortile, i proprietari sono tornati a casa o non sono mai andati via o sono sopravvissuti e stanno cercando di mettere in piedi una vita.

Vicino Kyjiv non c’è una traccia di pioggia. Il sole, l’oro colato, accarezza le punte degli alberi che sono verdi nonostante le ferite, nonostante il dolore, nonostante la tragedia.

Pensavo che a far battere il cuore così potesse riuscirci solo la persona che ami, invece lo può fare anche una città. Si chiama Kyjiv.

Scendiamo dal treno, arrivato in orario, una cosa molto rara di questi tempi. Il mio primo appuntamento con Kyjiv è molto timido e breve. Inizia con il controllo passaporti prima di entrare in stazione, poi con il controllo bagagli e solo dopo con un fugace bacio sulla piazza principale davanti alla stazione.

Dovrei affrettarmi, c’è il coprifuoco, ma non riesco a muovermi. Chiamo la mia quasi sorella, piango, rido e poi piango di nuovo. Mi raccolgo per chiamare un taxi, arriva un ragazzo gentile, carica la mia valigia, scherza che non è per niente leggera per una donna. In viaggio capisce che sono una turista che fotografa la città dal finestrino della macchina e allora comincia a raccontarmi delle battaglie per Kyjiv. Potrei essere una turista, ma sono anche una filologa e capisco subito che non è di queste parti. Infatti è della regione di Donec’k, arrivato a Kyjiv nel 2018 con la famiglia. Era fuggito da Kyjiv il 25 febbraio, è rientrato il 7 aprile. Ognuno qui ha la sua storia su dov’era e che cosa faceva il 24 febbraio 2022.

Mi sono chiesta più volte che cosa avrei fatto io il 24 febbraio, se non mi fossi trasferita in Italia nel 2015. Sarei rimasta e Kyjiv? Sarei scappata via? Avrei continuato a lavorare con i giornalisti italiani, come ho fatto nel periodo del Majdan nel 2013 e 2014? Non ho una risposta.

Il tassista mi aiuta a scaricare la valigia, la porta sulle scale fino al portone. Io entro in quell’appartamento attraverso il quale ho vissuto i primi giorni della guerra. Oltre lo schermo vedevo le finestre ricoperte dallo scotch di carta per sopportare l’onda d’urto, ora vedo i fiori sul davanzale che fioriscono come il verde fuori dalla finestra del treno, nonostante tutto.

L’appuntamento con l’appartamento della mia quasi sorella è intenso e non dovrebbe essere così fugace, ma viene interrotto dalla sirena e io mi sposto nell’angolo più sicuro della casa, e ora sono i miei amici ucraini a scrivermi come sto, e per una volta non io a loro, quando scattava la sirena. Mi dicono cosa fare e cosa non fare. Ora ci siamo scambiati i ruoli. La sirena dura un’ora e scatta in tutte le regioni d’Ucraina.

Kyjiv la scampa, posso anche spostarmi dall’altra parte del letto, opposta dell’angolo più sicuro, e mettermi in posizione orizzontale. Domani mi aspetta l’ultima tappa del viaggio. Domani rientro, torno, vado (qual è il verbo giusto nel mio caso?) a casa, o almeno a casa dei miei genitori.

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