Bolle spaziali È possibile limitare il riscaldamento globale manipolando la luce del sole?

Nonostante i dubbi sui costi, sulle potenziali ricadute ambientali e sui limiti tecnici, sempre più governi e aziende stanno iniziando a esplorare (e a finanziare) le tecnologie alla base della geoingegneria solare, con l’obiettivo di riflettere i raggi che puntano verso la Terra

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Ridurre le emissioni di gas a effetto serra ed evitare la deforestazione rimangono le due strade principali da seguire per mitigare, almeno nell’immediato, quella che è (o, almeno, dovrebbe essere) la principale preoccupazione umana del XXI secolo: il riscaldamento globale. Per un secondo però, provate a ribaltare il quadro, e immaginate di estirpare il problema alla radice. Ecco, la soluzione – secondo alcuni scienziati – potrebbe chiamarsi geoingegneria solare. 

Con la legge federale sugli stanziamenti del 2022 – firmata a marzo dal presidente statunitense Joe Biden – gli Stati Uniti stanno sviluppando un piano di ricerca proprio in questa direzione, investendo in quello che è uno dei campi più controversi per contrastare la crisi climatica. L’obiettivo del documento approvato dalla Casa Bianca è quello di dare vita – attraverso una collaborazione tra l’Office of science and technology policy, la Nasa, la National oceanic and atmospheric administration (Noaa) e il Dipartimento dell’energia – a un gruppo interagenzia per coordinare la ricerca in questo settore di cui si parla abbastanza poco. 

La geoingegneria solare è un tipo di ingegneria climatica che comprende una gamma di approcci diversi. Lo scopo, però, è il medesimo: contrastare, attraverso installazioni artificiali, il riscaldamento globale del nostro pianeta. Come? Riflettendo la luce del sole, in modo da invertire l’attuale tendenza di aumento delle temperature.

Come funziona la geoingegneria solare
Tra le proposte che hanno attirato di più l’attenzione della comunità scientifica c’è quella avanzata dal Mit, il Massachusetts institute of technology di Boston. L’idea alla base del progetto è di installare un gigantesco conglomerato di “bolle spaziali” che fungerebbe da scudo, galleggiando nello spazio e riflettendo i raggi del sole che puntano verso la Terra. Le bolle sarebbero prodotte e assemblate direttamente nello spazio, formando un’ampia zattera deflettrice posizionata tra il nostro pianeta e il Sole (per l’esattezza nel punto lagrangiano L1, dove le forze gravitazionali si annullano); per la loro costruzione verrebbe utilizzato un materiale simil-film sottile e le dimensioni dell’impianto si avvicinerebbero a un’area vasta tanto quanto il Brasile.

A differenza di molti progetti proposti in passato nell’ambito della geoingegneria solare, quello delle “space bubbles” è un tipo di protezione spaziale: per questo, non presenterebbe controindicazioni legate al rischio di intaccare la biosfera terrestre. In effetti, l’argomento di limitazione dell’esposizione solare è stato a lungo un tabù tra gli scienziati, e alcuni sostengono che dovrebbe rimanere tale. 

Non mancano i dubbi legati a eventuali effetti collaterali per l’ambiente, ai costi esorbitanti di queste tecnologie e alle preoccupazioni che di tali impatti negativi potrebbero risentirne – in modo non uniforme – diverse nazioni sparse per il globo. È difficile immaginare una governance globale coordinata per organizzare e gestire soluzioni ingegneristiche di dimensioni simili (che riguardano tutti). 

La diffusione della geoingegneria solare
Eppure, in tutto il mondo si moltiplicano i progetti di finanziamento che vanno in questa direzione. Il programma di ricerca sulla geoingegneria solare di Harvard, tra i più sovvenzionati al mondo, gode del sostegno di Bill Gates e ha ricevuto 2,5 milioni di dollari dalla fondazione Open philanthropy, creata dal co-fondatore di Facebook Dustin Moskovitz. Il paperone collega di Mark Zuckerberg – che ha un patrimonio stimato di 14 miliardi di dollari – prende parte personalmente ai dibattiti di geoingegneria su Twitter e partecipa attivamente alla discussione legata alla governance globale di ipotetiche installazioni “parasole”. 

L’obiettivo è creare i presupposti per un futuro terreno fertile che permetta un’armonia e un bene comune, senza portare benefici all’ecosistema di alcuni Paesi a sfavore di altri. In questo senso, un multilateralismo internazionale efficace sarebbe una condizione necessaria. 

Ciononostante, molti governi si sono già mobilitati a livello individuale. Secondo un’indagine effettuata proprio dall’Università di Harvard, le agenzie di finanziamento pubblico in Giappone, Usa, Regno Unito, Francia, India, Svezia, Cina, Germania, Norvegia e Finlandia hanno tutte sostenuto progetti di ricerca legati alla geoingegneria solare nel corso del decennio 2008-2018.

In particolare, l’Europa è stata a lungo il principale attore mondiale sul fronte della lotta al cambiamento climatico attraverso la “manipolazione” del sole, almeno fino alla metà dello scorso decennio. Nel 2014 aveva investito in totale circa 4 milioni di euro, ma da allora ha rallentato passando il testimone ai filantropi americani.

In questo scenario, non mancano le iniziative solidali. Il fondo Decimals – gestito nell’ambito della degrees initiative del Regno Unito – ha concesso circa un milione di dollari in sovvenzioni per aiutare gli scienziati nei Paesi in via di sviluppo ad analizzare gli effetti della geoingegneria solare. Il programma punta ad aiutare i ricercatori di Stati particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici a «svolgere un ruolo più significativo nella valutazione e nella discussione» relativa a questo tema. 

I progetti includono un piano di valutazione dell’impatto degli interventi ingegneristici sulla radiazione solare. In particolare, sulle possibili ricadute in termini di tempeste di sabbia in Medio Oriente, siccità in Sud Africa, sicurezza idrica in Bangladesh e diffusione del colera in Asia meridionale.

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