Bastano pochi colpi di pedale per portarci dalla locanda di Carduccio alla casa-museo Guareschi, ma nel coprire quella brevissima distanza mi prende il ritegno.
Giovannino si vergognava a presentarsi in calzoncini cortinelle città che raggiungeva in bicicletta. Inoki e io invece ci presentiamo all’appuntamento con suo figlio Alberto indossando i soli abiti dei quali disponiamo in viaggio – maglia e cappellino dei Forzati, salopette da ciclismo, scarpe a sgancio rapido – e spero tanto non ci giudichi troppo eccentrici.
Smontiamo di fronte all’ingresso, un varco fra una recinzione carica di verzura e l’angolo dello stabile che ospita il Caffè Guareschi; prima di accedere al cortile che nella buona stagione accoglieva i tavoli del ristorante domandiamo se è permesso, e subito ci si fa incontro una donna mora che ci invita cordiale a entrare. Mi domando se sia una delle figlie di Alberto, magari la Fenomena o la Vice-Fenomena di cui scrisse Giovannino nei suoi ultimi pezzi, ma il dubbio svanisce in fretta, ché mentre ricoveriamo le bici a mano sotto il pergolato la sento annunciare: «Babbo, sono arrivati».
Alberto lo riconoscerei all’istante anche se negli ultimi mesi non avessi studiato una mezza dozzina delle sue interviste video: è di complessione snella rispetto al padre, lunghe leve con mani e piedi grandi, ma lo sguardo attento e malinconico, il naso appuntito e la chioma, fittissima nonostante gli ottant’anni già compiuti, non lasciano dubbi.
Veste una camiciola a maniche corte, calzoni leggeri fermati dalla cintura ben sopra l’ombelico e nel venirci incontro getta uno sguardo alle nostre cavalcature cariche di bagagli. «Bici da professionisti» considera benevolo. «Non esageriamo» mi schermisco. «Siamo solo degli umili cicloviaggiatori» e nell’andargli incontro gli offro la destra. Il tempo di presentargli l’avvocato Inoki, e Alberto domanda: «È andato tutto bene alla locanda?». «Magnificamente» risponde il mio compagno. «Camera più che confortevole e tavola da re.» «Oh sì» confermo. «E ieri sera, dopo cena, abbiamo fatto due chiacchiere con Carduccio. Ci ha raccontato che era lui, il chierichetto che portava la croce al funerale del suo babbo».
«La sua era una famiglia di gran comunisti, ma con noi sono sempre stati gente a modo» nota Alberto, poi leva il braccio magro verso l’ingresso della struttura e considera: «Se siete pronti, io sono a vostra disposizione. Cominciamo?». Il sito ufficiale gestito da Alberto con il Club dei Ventitré, il circolo dei guareschiani più accaniti, invita a conoscere dal vivo la casa-museo e assicura che gli ospiti potranno godere di una visita guidata arricchita da curiosità e aneddoti. Il primissimo riguarda la bicicletta conservata nell’atrio. «Questa qui è la bicicletta che ha usato Fernandel nel primo film» spiega Alberto. «Era di un signore di Brescello, il quale l’ha regalata a me e mia sorella una trentina di anni fa. È la stessa che vede nella gigantografia» spiega accennando a un sagomato dell’attore francese. «Lì, allora, era un pochettino più in regola».
«Che reperto!» esclama Inoki mentre getto un’occhiata alla meccanica. «Era una bicicletta pseudo da corsa» riprende il nostro ospite. «Era fatta in casa, questa».
«Per caso avete anche la Umberto Dei che Giovannino impiegò per il suo Giretto?» domando. «La Superleggera? Certamente» mi colma di gioia Alberto, quindi ci cede il passo verso il vasto ambiente che ospitava la sala principale del ristorante, muri spessi a tenere lontano il freddo dell’inverno e mitigare la canicola estiva. Sul pavimento a scacchi sono disposti pannelli che ricostruiscono una stagione dopo l’altra la vita di Giovannino; molti li ho già visti in forma di pagine web sul sito, e mi meraviglia la sicurezza con cui Alberto, nell’illustrarli, ne recita le didascalie senza bisogno di leggerle.
«Questa era la casa in cui mio padre si è trasferito a quattro anni» spiega indicando la foto virata al seppia d’una casa dal balcone affollato, poi tira il fiato e attacca: «Nel 1912 Primo Augusto Guareschi costruisce Villa Maghenzani. Si vedono bene, sotto il cornicione, le “grandi signore pitturate tutt’attorno” nel “fregio decorativo figurale commissionato da Primo Augusto al decoratore Leonildo Spocci di Parma”».
Sono le stesse identiche parole impiegate sul sito, così mi dico che deve avere una memoria di ferro, l’ex bambino taciturno che nei racconti del Corrierino delle famiglie si isolava a leggere fumetti. Ora, mi dico, punta l’indice verso il balcone e spiega che tra le figurette si può riconoscere suo padre. «Qui si può intravedere il babbo» spiega, portando l’indice al balcone. «Ma passiamo al pannello successivo».
Sono sbigottito di fronte alla quantità d’informazioni che Alberto è in grado di sciorinare, sicuro come può essere chi ha ripetuto quelle parole centinaia di volte. Strano destino, quello di chi cresce all’ombra di un padre celebre e dalla personalità determinata, e finisce ancora bambino per trasformarsi in personaggio senza neppure l’agio di uno pseudonimo. La sua storia mi fa pensare a quella di Christopher Robin, il figlio dello scrittore inglese Alan Alexander Milne, che si trovò catapultato a sei anni, col proprio nome, le proprie fattezze e persino l’orsacchiotto del cuore nell’universo letterario di Winnie the Pooh.
Da piccolo prese la faccenda alla leggera, ma una volta adolescente si trovò a sviluppare un crescente imbarazzo verso il popolarissimo personaggio che portava il suo nome, arrivando a essere bullizzato senza pietà dai compagni di scuola: «Mi pareva quasi che mio padre fosse arrivato dove si trovava arrampicandosi sulle mie spalle di bambino» si trovò a scrivere. «Era come se avesse sgraffignato il mio good name» un termine che in inglese indica tanto il nome di battesimo quanto la buona reputazione «e mi avesse lasciato per le mani unicamente la vacua fama di essere suo figlio.»
Se Christopher Robin Milne fece pace con i suoi fantasmi solo una volta adulto, scrivendo una catartica autobiografia, il mite Alberto non lascia trasparire alcun disagio, come non fosse mai stato tentato di ribellarsi alla personalità paterna. Sin da neonato è stato un suo personaggio, all’epoca delle elementari è stato retrocesso a spalla della debordante sorellina, una volta adulto si è prestato a dirigere il ristorante di famiglia e ora fa da cicerone per gli appassionati di Giovannino ripetendone a menadito le parole. Edipo, decisamente, non abita alle Roncole.
«Ho letto tanti racconti in cui viene messa in scena la vostra vita domestica a Milano» spiego quando chiudiamo il tour e ci sediamo per registrare l’intervista vera e propria. «Il punto di vista, naturalmente, è quello del papà.» «Babbo» mi corregge amabilmente. «Noi lo chiamavamo così. Perché “babbo” è più babbo di “papà”».
«Giusto» approvo. «Anche dalle mie parti si chiamano così. Ma come si vive con un babbo così famoso? Che tipo di atmosfera c’era in casa?»
Albertino mi guarda come se avessi parlato in una lingua sconosciuta. Mi viene il dubbio che il suo udito non sia all’altezza delle straordinarie facoltà mnemoniche, così torno ad articolare la domanda: «Era un padre severo? Affettuoso? Giocavate insieme?». «Mio padre per lavorare aveva bisogno di stare tranquillo» attacca. «Ogni settimana doveva fare il giornale e, oltre a quello, aveva numerose collaborazioni da curare con scadenze strettissime, così spesso si portava il lavoro a casa. Io lo ricordo sempre dietro la macchina da scrivere, dal mattino alla sera».
Nel pronunciare queste parole Alberto scuote le dita a mezz’aria imitando i gesti di chi batte sui tasti; mi fa tornare alla mente un brano di Vittorio Zucconi, pressoché suo coetaneo, ambientato nella Milano intelligente e gonfia di speranze del dopoguerra, una città in piena espansione dove si viveva gli uni addosso agli altri, e le pareti delle case erano troppo sottili perché i figli non sentissero il lavorio notturno dei padri intenti a scrivere.
«Le gocce battevano metalliche sul tetto della mia insonnia come chicchi di grandine sulla lamiera di un pollaio, eppure mi cullavano e mi rassicuravano nella paura della notte» scrive Zucconi nel suo memoir Il lato fresco del cuscino. «Non riuscivo a dormire, ma se la Olivetti Lettera 22 di mio padre batteva, significava che l’universo era in pace con se stesso. Non c’era bisogno di dormire, bastava sognare. C’è chi ha bisogno di orsacchiotti e cagnolini di peluche per addormentarsi. Io avevo la Lettera 22».
«Era un lavoro molto impegnativo» ammetto. «Ma quando finalmente staccava, come passava il tempo insieme a voi?» Alberto mi guarda nuovamente come non m’avesse inteso. Scambio uno sguardo interrogativo con Inoki, e riprovo a voce più alta: «Quando era libero dal lavoro, giocava con voi?». «Eravamo piccoli e facevamo confusione» copre la mia voce.
«Lui doveva stare concentrato, così la mamma, che era una donna molto buona, ci raccomandava tutto il tempo di non dargli fastidio.» «Giusto» ammetto, ma la curiosità verso il Guareschi domestico resta grande, così torno alla carica: «Dai suoi racconti Giovannino sembra un uomo dagli approcci molto fisici. Come padre era affettuoso? Vi prendeva in braccio, vi spupazzava come si fa con i bambini?».
Alberto torna a rivolgermi un’espressione disarmante, ma ormai ho compreso che il suo non è un problema di udito. È come se, a ogni domanda che deraglia dalla storia canonica messa insieme in accordo con la sorella, scomparsa nel 2015, si trovasse indeciso sul da farsi.
«Non ricordo che mio padre mi abbia mai abbracciato» spiega a mezza voce. «Le sue dimostrazioni d’affetto erano tutte per mia sorella. L’aveva conosciuta solo a due anni, quando è tornato dai lager tedeschi, ed era lei la sua preferita» si sbilancia. «Guai a chi gliela toccava» aggiunge, poi torna a rifugiarsi sul terreno che lo fa sentire maggiormente a proprio agio:
«Giovannino l’ha anche scritto in un racconto, dedicato al suo matrimonio. Fosse stato per lui, non l’avrebbe neppure fatta sposare, perché sperava restasse per sempre col babbo. C’erano anche Gino Cervi e Fernandel, quel giorno, e nostro padre si è sentito come un burattinaio che vede i suoi personaggi sul punto di abbandonarlo». Annuisce da solo alle proprie parole come uno scolaro soddisfatto della propria esposizione, mormora «Ecco» poi inclina il capo in attesa della prossima domanda.
Alberto ci dedica due ore buone, nel corso delle quali passiamo in rassegna le varie fasi dei ventott’anni vissuti su questa terra accanto al suo illustre genitore, e la filologica precisione con la quale collega ogni evento agli scritti del padre non finisce di sconcertarmi.
«Come scriveva nostro padre» è la formula che lo traghetta verso una nuova citazione, e a tratti la dedizione di cui dà prova mi regala una vertigine, come se quel che non si ritrova nei libri o negli articoli non lo avesse mai riguardato. Il fratello minore di Giovannino, per esempio. Lodovico Guareschi detto Pino appare brevemente nei ricordi d’infanzia dello scrittore, torna in tempo di guerra, quando la sua presunta morte sul fronte russo induce lo scrittore a una sbronza epocale, poi svanisce senza lasciare troppe tracce. Il sito lo liquida con una fotografia degli anni Venti che mostra i due fratelli insieme al mare. È una foto dalla quale traspare un naturale moto di affetto: Giovannino, ormai adolescente vigoroso, tiene le mani in un gesto di protezione sulle spalle dell’altro, ancora bambino. Sul sito si spiega che quell’immagine venne recapitata ad Alberto e Carlotta dopo la scomparsa del padre, accompagnata dalle parole «Ma le sue mani sulle spalle ancora le sento».
Quando chiedo ad Alberto che tipo fosse quello zio, si limita riferire la didascalia che appare sul pannello a pochi passi da noi: «Non ha avuto una vita facile. È cresciuto nel periodo più duro, culminato nel fallimento del nonno». «Vi vedevate spesso?» lo incalzo. «Che carattere aveva?» «Intelligentissimo» mi lascia sperare in un fuori programma, poi riattacca la solfa generosa di superlativi che si può trovare in Rete. «Non trovò purtroppo la forza per reagire alle avversità né la volontà per continuare almeno una delle sue tante attività, svolte tutte benissimo ma brevissimamente».
Il tono piano e vergine di sentimenti con cui parla dello zio mi dà l’idea che non si frequentassero granché, ma non m’aiuta a capire se parli di un allegro scioperato o di un uomo tormentato da una debolezza invincibile, ché non c’è verso di cavargli una parola di più; non vale neppure buttar lì che forse Pino aveva ereditato l’irriducibile tendenza del padre Primo Augusto, il Matto Bazzìga, nell’intraprendere avventure commerciali grandiose nelle premesse ma dagli esiti disastrosi. Alberto annuisce, ed è tutto.
Meglio parlare di Don Camillo e Peppone, allora, della grande gloria che regalarono a Giovannino e dei suoi dispiaceri nel vedere i soggetti usciti dalla sua macchina da scrivere rimaneggiati dagli sceneggiatori.
C’è un repertorio gustosissimo di lettere che lo scrittore inviò a Rizzoli, nelle quali lamenta le inaccettabili distorsioni operate dai «cinematografari», i «puzzoni romani» che edulcorarono i suoi racconti per non offendere il pubblico di Sinistra. L’intera storia di quella saga cinematografica, che si protrasse per due decenni raggiungendo prestazioni miracolose al botteghino, è scandita dalle minacce dello scrittore di ritirare l’autorizzazione alla messa in scena, dalle piccate prese di posizione nei confronti dei registi e dalle sfuriate nei cinema in occasione delle prime.
Al dunque, però, Giovannino si fece andar bene tutto, e portò a casa non solo i milioni del cinema ma una fama imperitura per i suoi personaggi. Alberto mi ascolta ripercorrere quella storia tempestosa e fortunatissima, ma quando gli domando se in fondo la gloria dei libri non fu amplificata in maniera decisiva dai film, risponde diplomatico che Fernandel e Gino Cervi ebbero grandi meriti, ma in fondo Don Camillo e Peppone si erano già dimostrati capaci di camminare sulle proprie gambe anche prima di arrivare nei cinema.
Il figlio di Giovannino si scalda un po’ solo quando racconta delle traversie giudiziarie subite dal padre in seguito alla pubblicazione su Candido di due lettere attribuite a De Gasperi; sottolinea che il processo intentatogli dal politico ebbe parecchi punti oscuri, a cominciare dalla fuga all’estero del teste-chiave, lo stesso uomo che aveva fornito i documenti a Guareschi, per continuare col ruolo ambiguo di un avvocato, già difensore di suo padre in un vecchio procedimento e passato in maniera molto discutibile al servizio della controparte.
Alla luce delle cronache del processo e delle motivazioni della sentenza, che vide lo scrittore condannato a un anno di reclusione, è chiaro che si trattò di una vicenda inaudita: lo scontro in tribunale fra lo scrittore più celebre d’Italia e un padre della patria reduce da sette anni consecutivi alla guida del governo fu a dir poco più clamoroso, e bisognerebbe essere particolarmente ingenui per non realizzare che nei confronti di Giovannino ci fu una volontà punitiva.
Quando però domando al figlio se a suo avviso, in ultima analisi, le lettere fossero vere o false, si limita a spalancare le braccia. «Ne hanno scritto a non finire, ma credo che la verità non si saprà mai» spiega. «Certo per noi è stato difficile, trovarci con il padre in carcere. Io avevo quattordici anni, mia sorella dieci, e non mi scorderò mai l’odore di quel posto.» Poi scuote la testa e aggiunge: «Gli hanno voluto rovinare la carriera. Su questo credo che non ci possano essere dubbi».
da “Il fantasma in bicicletta. All’inseguimento di Giovannino Guareschi”, di Enrico Brizzi, Solferino editore, 752 pagine, 22 euro