JeanswashingIl denim cerca di diventare sostenibile ed ecologico, ma c’è ancora tanto da fare

In risposta a un’ondata di attenzione negativa, i produttori hanno cominciato a rivedere il processo di produzione nel rispetto dell’ambiente. Ci sono diversi progetti in cantiere, ma diversi passaggi della catena (a cominciare dalla coltivazione del cotone) devono ancora migliorare

di Claire Abdo, da Unsplash

Negli ultimi anni i produttori di denim hanno fatto decisi passi in avanti per attenuare l’impatto negativo delle loro produzioni sull’ambiente.

All’inizio di questo millennio la percezione della tela color indaco ha cominciato a trasformarsi. E in risposta a un’ondata di attenzione negativa, i marchi e i loro fornitori hanno lavorato per ridurne l’impronta ecologica: è stato ridotto il consumo di acqua, è aumentato l’utilizzo di coloranti a base biologica e sono stati sostituiti prodotti chimici per la finitura con tecnologie laser.

Negli anni ’70 del secolo scorso, il denim – utilizzato prevalentemente in occidente per capi da lavoro – si è affermato in ogni parte del pianeta: prima come simbolo di libertà e poi come tessuto base da rendere glamour, attraverso i virtuosismi di designer del fashion.

Da quel momento i processi di lavaggio con acidi e sabbiatura si sono diffusi ingigantendone l’impatto negativo. Qualunque sia la tonalità di indaco dei jeans messi in commercio è certo che all’inizio provenivano da una qualità di denim rigida, e colorata di un blu profondo e scuro. In seguito il tessuto è stato alleggerito, consumato, strappato o sfregato nei punti previsti dalla progettazione di ogni singolo marchio.

Se i lavaggi con acido e la sabbiatura oggi si possono considerare superati, purtroppo grandi quantità di sostanze chimiche nocive continuano ad essere utilizzate e poi rilasciate nell’ambiente.

Ma c’è dell’altro. È di qualche settimana fa l’annuncio del progetto pilota sostenuto da OTB Group (Diesel, Maison Margiela, Marni, Viktor & Rolf, Jil Sander, Amiri…) per il riciclo degli scarti di tessuti in cotone di concerto con i propri fornitori tunisini.

L’industria tunisina produce ogni anno 31.000 tonnellate di rifiuti di questo tipo. Una parte verrà ora utilizzati da Diesel per realizzare nuovi capi, mentre il resto resterà disponibile per altri utenti finali.

Il progetto è un’iniziativa dell’UNIDO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite che promuove lo sviluppo industriale inclusivo e sostenibile.

A supportarlo, oltre OTB a Group, c’è il governo tunisino e la Federazione tunisina del tessile e dell’abbigliamento.

Diesel non è il solo marchio ad essersi messo su questa strada. Levi Strauss & Co ha sviluppato da una serie di processi di rifinitura per ridurre la quantità di acqua utilizzata nelle sue lavorazioni. Ha iniziato inoltre a utilizzare tessuti provenienti da una miscela di cotone e canapa: la coltivazione di quest’ultima prevede una quantità notevolmente inferiore di acqua.

Kontoor, che possiede Lee e Wrangler, si è dato come obiettivo il risparmio di 10 miliardi di litri di acqua entro il 2025. Tra le tecnologie che utilizza c’è la finitura all’ozono, che sostituisce l’uso della candeggina per sbiadire, permette fasi di il riciclaggio avanzato e scarico di liquidi ridotto a zero.

I paradossi

Ai tratta di casi particolarmente virtuosi. In generale però la produzione di denim resta problematica. Il cotone coltivato industrialmente necessità non solo di acqua ma pure di energia in grandi quantità e altrettanto grande la quantità dei fertilizzanti chimici.

Paradossale poi che in cima alla classifica dei produttori di denim ci sono in paesi vittime di stress idrici come Bangladesh, India, Turchia e Cina, che poi esportano gran parte delle loro produzioni in paesi assai più irrigui.

All’attuale miglioramento delle pratiche produttive non corrisponde quello delle dinamiche di progettazione: sono le preferenze dei designer a prevalere sulle metriche della sostenibilità. Questo perché i processi decisionali nella maggioranza dei casi restano guidati interessi finanziari piuttosto che da quelli del pianeta.

Le opportunità

Per i grandi marchi, la trasformazione della filiera di approvvigionamento è certamente impegnativa e finanziariamente onerosa. Tuttavia sino a quando il problema non verrà affrontato alla radice le iniziative “verdi” comunicate da questo o quel brand restano poco più che greenwashing: non esistono linee di prodotti ecocompatibili senza l’adozione delle pratiche necessarie in tutta la catena di approvvigionamento.

Da questo punto di vista sono i marchi più piccoli a trovarsi in una posizione migliore rispetto ai loto competitor di stazza superiore. Progettare prodotti che fanno della sostenibilità il punto di partenza, e non il contrario per loro è possibile.

L’ultimo decennio ha dimostrato che alternative più sicure e più pulite esistono.

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