Partire dall’alimentazioneChe ci piaccia o no, bere latte non è più sostenibile (non solo a livello ambientale)

Una mucca che biologicamente produrrebbe al massimo 4 litri di latte al giorno, arriva a garantirne 28 grazie a cicli (dannosi) di inseminazione artificiale. Questo è solo uno dei metodi adoperati all’interno dell’industria lattiero-casearia, che è anche responsabile di una notevole quantità di emissioni di gas serra

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Dice bene Alice Pomiato, che dal 2020 ha convertito il suo profilo Instagram ed è tra le più conosciute e seguite influencer di tematiche etico-ambientali: quando si tocca l‘alimentazione, le persone tirano fuori il peggio di sé. In un articolo intitolato “Noi Animali“, ripreso l‘8 aprile da Internazionale, le due sorelle Astra e Sunaura Taylor citavano il discorso tenuto da Joaquin Phoenix al ritiro dell‘Oscar nel 2020, in cui l‘attore ha denunciato pubblicamente l‘abuso dell‘uomo nei confronti degli animali. La platea assisteva spaesata, e nei giorni seguenti gli organi di informazione – di qualsiasi orientamento politico – l‘hanno definito rabbiosamente “un epico sproloquio sociopolitico”.

«Sono incapaci di pensare a un compromesso», ha dichiarato Alice in una recente intervista a Repubblica. Si riferiva in particolar modo alla carne, ma se pensiamo al latte e al consumo massiccio che ne facciamo ogni giorno, la questione diventa ancora più spinosa. Il latte non è soltanto nella tazza che beviamo ogni mattina per la prima colazione: si trova nel caffè macchiato che ordiniamo al bar, nella mozzarella, in tutti i formaggi, nello yogurt, nei dolci. Anche chi segue una dieta orientata sul veganesimo scopre ben presto che percentuali minime di latte sono contenute praticamente dappertutto. Questo dovrebbe darci una prima misura della grandezza del settore.

Ciò che rende l‘industria lattiero-casearia perlopiù nascosta, fumosa, è che la maggior parte di noi non ha idea di come il latte venga effettivamente prodotto. Lo troviamo fresco al supermercato ogni mattina, in decine e decine di bottiglie o cartoni confezionati. Ma, come per tutti i mammiferi, il latte giunge solo in caso di un parto. Innanzitutto, l‘animale deve essere femmina. Fin qui nulla di nuovo. E poi è necessario che sia in lattazione. Ma, considerando la quantità di latte prodotto, sorge spontaneo un dubbio: come può una vacca essere perennemente incinta?

In teoria è impossibile, ma esiste un metodo per indurre gravidanze continue all‘interno degli allevamenti intensivi, che rappresentano l‘80% del totale. Lo spiega Chiara Caprio, ex giornalista e responsabile Comunicazione e Programmi di Animal Equality Italia: «Affinché una vacca resti incinta almeno una volta l‘anno, si passa attraverso un ciclo di inseminazioni artificiali, un passaggio fondamentale, che tocca a ogni allevatore».

In questo modo, una vacca che normalmente e biologicamente produrrebbe al massimo 4 litri di latte al giorno, arriva a produrne 28. I cicli di mungitura sono meccanizzati e vengono effettuati più volte al giorno, spesso anche di notte. «Gli animali vengono sospinti attraverso corridoi forzati fino a una specie di giostra. Lì trovano un tiralatte che si attacca alle mammelle. Una vera e propria catena di montaggio».

La stimolazione perpetua e incessante di gestazioni e mungiture rendono le vacche deperite (e senza latte a disposizione) nel giro di poco tempo, all‘incirca due anni – quando potrebbero arrivare a venti. La logica che giustifica e corrobora questo tipo di struttura è l‘ottimizzazione di risorse, tempo e denaro. Quando un animale non è più utile alla produzione, viene considerato carne da macello. Nel momento in cui esaurisce l‘apporto di latte che è capace di fornire, è destinato a morire.

Altro che gli spot pubblicitari della Lola o i manifesti che ritraggono mucche in aperta campagna, con il campanaccio appeso al collo. Di solito non hanno nemmeno accesso al pascolo e sono stipate in ambienti artificiali, rumorosi e piccoli. Inoltre, sono esposte a infezioni quali la mastite, dettata dal peso di mammelle diventate enormi, o la zoppìa, dovuta alla mancanza di mobilità.

Un altro problema riguarda i vitelli che vengono dati alla luce, di cui gli allevatori non sanno che farsene. In Gran Bretagna, dove Animal Equality ha condotto recentemente un‘inchiesta, vengono uccisi immediatamente. In Italia, dove la carne di vitello gode di una certa popolarità, sono prelevati, svezzati all‘interno di gabbie e poi uniti alle mandrie, in attesa della macellazione. In questo senso, l‘Unione europea dovrebbe proibire l’utilizzo delle gabbie per gli animali entro il 2027.

Peraltro, la pratica puntuale e diffusa della separazione dalla madre viola è ciò che gli scienziati definiscono “benessere animale”: l‘episodio è altamente traumatico per entrambi. Trascorrono i giorni successivi a chiamarsi a vicenda.

«Perché riconosciamo una relazione empatica, affettiva soltanto con un cane e un gatto? Non c‘è atteggiamento più contraddittorio», dice Chiara Caprio, che aggiunge: «Mostrare immagini, corredate da report, di quanto realmente accade dietro la narrazione patinata dell‘industria è il primo passo per correggere la disinformazione che dilaga tra i consumatori».

I prodotti caseari sono considerati il fiore all‘occhiello nostrano, eccellenze rivolte quasi esclusivamente all‘esportazione. I parlamentari sono insorti quando Animal Equality ha tentato di avviare un‘inchiesta sui criteri di produzione della mozzarella di bufala, o sugli allevamenti intensivi della Grana Padano.

Nelle ultime settimane, Animal Equality, Greenpeace, Legambiente e Essere Animali si sono coalizzati contro un decreto dei ministri Stefano Patuanelli e Roberto Speranza. L‘Italia ha accesso a una serie di fondi distribuiti dalla Politica agricola comune europea (Pac). Nel 2020 la nuova Pac ha presentato però una clausola, di cui una parte prevede 360 milioni di euro destinati a rendere la zootecnia più sostenibile. Per ovviarla e accedere lo stesso ai fondi previsti dall‘accordo, Patuanelli e Speranza hanno inventato un sistema di etichettatura volontaria dei prodotti, che riporta la scritta «benessere animale». Appiccicando questo bollino che fornisce metriche opache e al di sotto dei parametri, ci si è aggrappati a una mera facciata per consentire agli allevatori di non fornire spiegazioni né prove sullo stato dei loro allevamenti.

Per giunta, il consumo medio di latte è aumentato del 90% negli ultimi 50 anni. Come spiega Simona Savini della campagna Agricoltura Greenpeace Italia, «L‘essere umano è l‘unico mammifero che continua ad assumere latte anche in età adulta».

Il passaggio a bevande vegetali potrebbe rappresentare un‘ottima alternativa, se queste non figurassero tra i beni di lusso. Le quote latte ricevono sussidi, mentre invece il latte di soia ha un prezzo maggiorato. Dunque resta un‘opzione solo per le fasce più abbienti della popolazione.

È anche vero, ricorda Chiara Caprio, che un atteggiamento oltranzista o dogmatico non serve a niente: «Basta ridurre drasticamente. Già assisteremmo a risultati notevoli».

Modificare le proprie abitudini alimentari ha un enorme potere di mitigazione sugli effetti del cambiamento climatico. Specialmente in una fase come quella attuale, dove gli studi confermano che i prossimi dieci anni saranno cruciali e bisogna pertanto concentrarsi su azioni immediate. Ridurre il numero degli animali allevati comporta una diminuzione immediata del metano, legato strettamente ai processi fisiologici dei ruminanti, e dunque a un calo delle emissioni. Ricordiamo che il metano, se rilasciato in atmosfera, ha un potere di riscaldamento di 80 volte maggiore a quello della normale Co2.

Rendere più sostenibili e artigianali gli allevamenti o, ancor prima, iniziare a mangiare meno carne è un processo paradossalmente facile, ben più semplice di convertire tutte le fonti fossili o attendere che ribaltino il settore energetico dall‘oggi al domani.

Il consumo di latte è intrinsecamente correlato al consumo di carne bovina, e smorzarlo significa compiere scelte etiche non solo nei confronti degli animali o del clima, ma anche nei confronti dei lavoratori, stretti nella stessa morsa dell‘iper produttività industriale colpevole di sfigurare il pianeta. Il mercato massificato comporta per gli allevatori margini assai bassi, i cui prezzi fissi sono stabiliti dalle cooperative. Sono pertanto costretti a produrre sempre più latte e ad allevare sempre più animali, senza neppure un ritorno economico.

«Va bene salvare l‘esportazione per alcune eccellenze, ma di che eccellenza parliamo se è concepita penalizzando la qualità?», si chiede Simona Savini. «L‘accesso all‘alimentazione sana è un diritto. Dovremmo produrre meno: non abbiamo bisogno di milioni di litri di latte all‘anno. Indirizziamo i fondi pubblici a politiche di sostegno. Altrimenti sarà il cambiamento climatico ad asfaltare certi settori, e i danni saranno sicuramente maggiori. È sotto i nostri occhi con la siccità di questa estate».

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