Il tuffatore trattiene il respiro, chiude stretti gli occhi, con la mano destra chiude il naso e si butta nelle acque fredde come la notte polacco-ucraina di fine luglio, ma anche avvolgenti e famigliari. I capelli sembrano volare sotto l’acqua, con la mano sinistra il tuffatore cerca invano un appiglio. Nuota in avanti con gli occhi chiusi, questa non è una piscina per i tuffi, ma per il nuoto a corsie. Per descrivere i mesi di guerra in Ucraina, si è ricorso alla metafora che non è uno sprint, ma una maratona. Non è un tuffo con le piroette, è una batteria con i nuotatori in una gara di lunga distanza come quelle che si fanno nelle acqua aperte.
L’autostrada Cracovia-Korczowa pullula di camion con le scritte: “Lidl”, “Verdura fresca”, “Frutta fresca”. Viaggiano tranquilli in questa notte polacca anche al confine con l’Ucraina. E gli ucraini, anche dell’autobus sul quale mi trovo io, non meritano questa tranquillità? Quella banale noiosa quotidianità dei camion con la frutta fresca? Quei dilemmi semplici su dove andare a mangiare stasera e che vestito mettere. Perché no?
Alla frontiera polacco-ucraina arriviamo alle due del mattino ora polacca, tra cinquecento metri sono le tre del mattino, in Ucraina il fuso è un’ora in avanti. Ci mettiamo due ore (a sentire l’autista anche poco) per spostarci da un casello all’altro. La doganiera ucraina sale sull’autobus e chiede se i cinquantanove passeggeri sono tutti ucraini e se ci sono stranieri, poi raccoglie cinquantanove passaporti. Tutti blu con il tridente dagli angoli acuti. Donne e figli che ritornano a casa da dove sono stati sfollati, ma padroni di casa propria. Per casa intendo anche un pezzo di suolo ucraino, un binario sulla stazione, dove tutti parlano la stessa lingua: «Io parlo russo, ma la mia testa è ucraina, ho tolto la parola a mia sorella che sta in Russia, non mi capisce, perché la mia testa è ucraina», dice una signora con la figlia di dieci anni che sta rientrando dalla Repubblica Ceca.
Ancora ad aprile non avrei mai potuto immaginare che a fine luglio sarei potuta tornare (tornare, andare, rientrare qual è in verbo giusto nel mio caso?) in Ucraina. Che avrei potuto prendere un autobus e attraversare il confine in direzione Est, prendere un treno a Leopoli per andare nella capitale, a Kyjiv, e non con un treno blindato, magari con dei giornalisti, viaggiando di notte, ma come lo fanno tutti gli ucraini, con un treno di linea, un Uber, chiamato con l’applicazione e poi pagare un caffè al bar con Apple Pay.
Invece tutto questo è possibile e lo è grazie alle Forze Armate d’Ucraina “ZSU” — Zbrojni syly Ukrajiny. «Djakuju ZSU» (Grazie “ZSU”) è diventata la preghiera degli ucraini, che si recita più volte al giorno e in più occasioni.
Dopo aver visto il cartellone “Ukraine” con la bandiera gialloblù, sono crollata in un sonno profondo, di quelli che fai solo a casa, perché ti senti al sicuro. Di quelli che facevo da studentessa, quando tornavo a casa dei genitori un sabato al mese e dopo pranzo, magari anche con il borshch della mamma, mi lasciavo andare sul divano. La casa non è più un posto sicuro, ma la stanchezza del viaggio è tanta. Tra il confine e Leopoli ci sono solo sessanta chilometri, mi sveglio di colpo e con quattro diottrie in meno nei miei occhi e il grigiore dell’alba più bella della mia vita, vedo il posto di blocco davanti all’ingresso di Leopoli. I militari, i sacchi di sabbia, i blocchi di cemento. La casa non è più un posto sicuro.
Sono le 5:30 del mattino, scendiamo dall’autobus.
Ci vuole un attimo.
Il tassista improvvisato, un signore anziano, cerca sulla mappa di carta aiutandosi con la luce del faro della sua macchina Via della Gioia. Non è una metafora, l’indirizzo dove mi devo fermare a Leopoli è Via della Gioia, 10. In macchina suona l’ultima canzone della rock band ucraina “Okean El’zy” sulla guerra: «Mamma, questo non è un sogno», dopo però c’è Adriano Celentano che entra con «la situazione politica non è buona, la situazione economica non è buona» e per un momento dubito di essere mai partita dall’Italia.
L’arrivo. L’abbraccio della migliore amica, quasi sorella, anzi senza quasi. Altre due ore di sonno sul divano, senza neanche togliere i jeans. Il risveglio con le sirene, ci spostiamo verso i muri portanti della casa.
Passiamo una giornata passeggiando in città, consegnando Linkiesta Magazine Omaggio all’Ucraina agli autori ucraini. Parliamo, mangiamo qualcosina, salutiamo i militari in città, facciamo le foto ai monumenti ricoperti con i sacchi di sabbia con le scritte: «Godremo l’originale dopo la nostra vittoria», leggiamo i cartelloni sulle strade «Il coraggio ha due colori» «Djakuju ZSU», «Imparare l’autodifesa». C’è anche un DJ nella piazza centrale che mette le canzoni ucraine della resistenza.
In piazza, in città, nei paesi siamo tutti legati allo stesso filo, allo stesso dolore, alle stesse notizie sulla strage dei prigionieri ucraini a Olenivka. Siamo tutti legati allo stesso trauma. Qui non serve mettere una bandiera gialloblù sul polso per sentirsi più forte e più ucraina, come faccio in Italia, qui sono tutti ucraini e sono tutti forti.
L’indomani mi aspetta il treno per Kyjiv. Ci sarà una pioggia fitta a salutarmi, ci sarà un abbraccio della quasi sorella, perché lei resta qualche giorno ancora a Leopoli, mentre io da sola rientrerò nella sua casa di Kyjiv, in quella città dove ho vissuto per tredici anni, dove non mi serve una mappa di carta per trovare la via della Gioia, che in questo caso è una metafora.