Lo aveva anticipato, qualche anno fa, Marco Ferrari nel suo saggio “Architettura e materia” (Quodlibet Studio), lo sperimentano quotidianamente architetti e designer oggi: nell’epoca dell’immateriale, la materia si riprende il centro della scena, riaffermandosi come valore in sé, tra cambiamenti climatici, conflitti geopolitici e problemi di approvvigionamento che stanno sconvolgendo asset produttivi, creativi e industriali. Non è un caso quindi che nascano progetti come “Materia Viva”: «Un collettivo di giovani designer che opera tra Marcianise e Napoli» – spiega Maria d’Ambrosio, ideatrice del progetto – «che a partire dalla tradizione locale del tufo, lavorano sulla possibilità di mescolare scarti di tufo (che raccontano la stratificazione geologica di Napoli) alla resina e al polistirolo riciclato.
Da questo processo di trasformazione prendono vita oggetti come librerie, lampade e installazioni che richiamano l’attenzione sulla materia come elemento vivo. Oggi alcuni lavori sono esposti nelle piazze di Marcianise che, da città industriale, diventa così luogo di ricerca e innovazione, quindi di sviluppo». Progettare il futuro a partire dalla concretezza e dalla conoscenza di materiali fragili e preziosi come metallo, acqua, pietra e legno, del resto, è un tema che apre un capitolo enorme sul tracciamento della vera sostenibilità. Ecologica ma anche economica. Perché la scelta dei materiali è – da sempre – una voce importante del costo di realizzazione di un progetto.
Lo sa bene Diébédo Francis Kéré, vincitore del Pritzker Price 2022, il Nobel dell’architettura e che, nato a Gando, un piccolo villaggio nel cuore del Burkina Faso (un Paese dove il 45 per cento della popolazione è al di sotto della soglia di povertà e il tasso di analfabetismo supera il 60 per cento), grazie alla sua tenacia e al sostegno di un programma di borse di studio che gli ha permesso di completare gli studi in Europa, è diventato uno dei protagonisti di un nuovo modo di fare architettura in contesti difficili.
Nel suo studio di Berlino (città nella quale risiede da quando, dopo il diploma in falegnameria, si è laureato in architettura) ha progettato scuole, biblioteche e ambulatori in diversi Paesi dell’Africa impiegando esclusivamente materiale e manodopera locali e raggiungendo due risultati: contenere i costi ed esportare conoscenza e formazione. «L’architettura contemporanea è uno strumento capace di innescare dinamiche positive molto potenti, ha il dovere di interrogarsi sull’architettura africana può avere un ruolo guida perché da sempre si deve confrontare con un ambiente difficile e conosce i problemi climatici e quelli legati all’estrema scarsità di acqua, un altro tema che è diventato decisivo in tutto il mondo», spiega Francis Kéré.
«In Burkina Faso non avevo a disposizione materiali sofisticati, così ho cominciato a costruire con blocchi di argilla e sabbia compressa, mattoni che si possono produrre a basso costo anche in condizioni di scarsità di acqua e senza elettricità. Poi ho studiato il modo di renderli più resistenti con l’aggiunta di cemento e questo ha significato due cose: ampliarne l’impiego e sostenere l’economia dei Paesi che producono cemento. Negli ultimi 20 anni questa produzione ha permesso di costruire edifici necessari, belli e confortevoli e di creare formazione e lavoro sul posto. Nelle aree geografiche più calde, poi, funziona bene anche la laterite, un composto di minerali ricco di ferro e di alluminio diffuso nelle zone tropicali e facile da cavare perché molto superficiale.
Quella di buona qualità (più compatta e fisicamente resistente) è perfetta per realizzare mattoni e coperture per il tetto. In più, a differenza dell’argilla, non ha bisogno di indurire. Può essere utilizzato subito e questo riduce i tempi e i costi del cantiere. Solo con questa visione d’insieme l’architettura smette di essere un fatto individuale, un compito privato, e diventa l’espressione di un dovere verso la comunità, contribuendo a migliorare la vita delle persone». Perché, a partire dalla terra – intesa come globo terrestre ma anche come materiale – si può riprogettare il modo di vivere, di abitare e di lavorare.
«Occorre però guardare avanti e mescolare i saperi», spiega Maria Concetta Cossa, direttrice dell’Istituto Superiore di ricerche artistiche (ISIA) di Faenza, una delle eccellenze italiane della formazione nel campo del design. «Noi nasciamo nel cuore del comparto della ceramica, settore messo duramente in crisi dagli aumenti di luce e gas e dalla guerra in Ucraina che ha interrotto le importazioni di argilla e caolino dal Donbass, e nel progettare facciamo molta ricerca sui nuovi materiali. Nel 2021 abbiamo portato al Salone del mobile di Milano una collezione di depuratori d’aria in terracotta o porcellana uniti a nanomateriali come sali d’argento e ossidi di titanio che – grazie a un microchip – entrano in funzione quando vengono illuminati da luce naturale o artificiale.
Possiamo farlo perché lavoriamo in collaborazione con il Centro ricerche Colorobbia di Vinci, in Toscana, e con il CNR. Nei nostri laboratori i ragazzi lavorano alla creazione di prodotti realizzati con materiali come terra, scarti di legno, metallo, buccia della frutta (dalla quale si può ricavare un tipo di similpelle) o fondi di caffè. Così ogni oggetto si fa anche portatore di una storia importante». C’è poi un elemento che è strettamente legato al mondo della produzione e che, da sfida di Paesi come quelli africani, è diventato emergenza mondiale. È l’acqua.
Tempodacqua è il titolo dell’ultima pubblicazione del laboratorio di ricerca permanente ideato dall’architetto Alfonso Femia in occasione della Biennale di architettura di Pisa del 2019, presentato alla Biennale di Venezia nel 2021 e diventato una bussola per chi fa progettazione. Parte da un po’ di numeri che inquadrano perfettamente lo scenario, come ad esempio le 263 guerre che, dice l’Unesco, sono esplose nel mondo dal 2010 al 2018 per il controllo dell’acqua, o i dati relativi all’aumento del livello del mare (3,6 mm l’anno), e confronta voci differenti (da Maarten Van der Voorde a Petra Blaisse, da Javier Corvalán a Ico Migliore) e arriva a proporre azioni per creare una migliore relazione tra l’acqua e il lavoro del progettista. È il water urbanism, e include esempi come quello danese delle banche d’acqua, dove raccogliere gli eccessi della stagione invernale, o la creazione di città con suoli drenanti e non impermeabili.
«L’architettura è l’atto concreto che rappresenta – nell’abitare e nel lavoro – il modo in cui si sviluppa il territorio e l’acqua ne è da sempre elemento fondante: pensiamo solo allo sviluppo urbano lungo i corsi d’acqua e le coste o all’ingegneria idraulica dei romani. Il punto è che oggi si deve prendere coscienza che il “tema green” è importante, ma che non c’è green senza blu», esordisce Femia. «È finita l’epoca in cui si immaginava l’uomo capace di ricreare un territorio a suo uso e consumo, intubando l’acqua come nell’Ottocento. Oggi sappiamo che il 74 per cento delle catastrofi ambientali dipende da questo elemento e che a un fiume occorre consentire di esondare senza danni. Come? Uscendo dalla modalità “crescita costante”, cominciando a costruire diversamente a partire dal cantiere, dove i consumi d’acqua vanno contenuti e riciclati, insomma facendo architettura senza possedere le cose».
È “l’invariante idraulica” che diventa cultura di progetto, di azione responsabile sul presente per poter abitare il futuro. «Ne parleremo a settembre alla prima Biennale dello Stretto (di Messina, ndr), dove analizzeremo le tre linee d’acqua: del crinale, della pianura e della costa. Se il cambiamento climatico dimezza la portata delle acque del crinale, vuol dire che avremo i bacini idroelettrici vuoti e, quindi, meno energia: altro tema fondativo. Ma non dobbiamo occuparcene “per” ma “con” le nuove generazioni, che hanno velocità di pensiero e visione, per creare una società di servizi che parla di trasversalità, coralità, molteplicità di sguardi, contaminazione, rispetto a una cultura che ha parcellizzato, generato dogmi e che ha fallito clamorosamente».
In questo viaggio all’interno della materia manca all’appello il metallo. Che, soppiantato dalla plastica negli anni Settanta, è tornato ad avere una sua centralità. Anche nell’arte, come raccontano dagli anni Novanta le opere dello scultore americano Richard Serra: opere monumentali in acciaio ossidato piegato in forma di arco, spirale o ellissi, che trasformano e scompongono lo spazio (imperdibile l’installazione “The Matter of Time al Guggenheim” di Bilbao) offrendo allo spettatore la profonda emozione di un’esperienza disorientante. Scopriamo così che il metallo, nella sua immanenza, acquista valore per la sua capacità di dialogare con la luce, elemento immateriale per eccellenza. È la filosofia che guida il giovane designer concettuale Pierre De Valck il quale, da Gand in Belgio, progetta e realizza mobili che uniscono la freddezza dell’alluminio al calore e all’irregolarità delle pietre fossili. «Sono sempre stato attratto dai metalli, dalla loro lucentezza, e nel mio lavoro cerco il contrasto tra l’imperfezione di pietre antiche milioni di anni e la perfezione di un materiale “giovane” come l’alluminio, scoperto nel 1800. Un contrasto fortissimo, che è sia visivo sia tattile. Credo che nell’epoca dell’impermanenza ci sia bisogno della solidità di oggetti come questi».
Chi ha fatto della “material consciousness” la filosofia di tutta la sua ricerca creativa è però Brodie Neill, designer che vive a Londra dove – nel 2013 – ha fondato Made in Ratio, brand di arredamento autoprodotto. Nato in Tasmania, le cui coste paradisiache oggi sono invase da tonnellate di rifiuti di plastica provenienti da tutto il globo, Neill ha iniziato la sua ricerca proprio dalle spiagge, ripulendole e trasformando i frammenti di plastica in tavoli-mosaico (come l’iconico Gyro, fatto da mezzo milione di frammenti di plastica oceanica e presentato alla London Design Week nel 2016) che sono finiti anche al Parlamento europeo per sensibilizzare i politici sul tema. Ma tutto il suo lavoro punta sull’upcycling: per il legno, per esempio, Brodie Neill impiega solo essenze recuperate da demolizioni, vecchi parquet dismessi o, come per il tavolo ReCoil, da una foresta australiana che, negli anni Ottanta, è stata sommersa dalle acque di una diga idroelettrica.
Essenze come pino Huon, quercia della Tasmania, pino sedano, sassofrasso, mirto e mimosa blackwood, sono stati così recuperati, tagliati e arrotolati a mano per formare il piano del tavolo: tanti anelli colorati che evocano i cerchi concentrici della crescita di un albero e richiamano fortemente il bisogno di riconnettersi con la natura. «Ogni mio progetto è il risultato di una rigorosa riflessione sulle complesse problematiche dei rifiuti, la circolarità dei materiali e le risorse limitate. Il senso del mio lavoro è mettere le persone di fronte a uno specchio», ha dichiarato l’artista.
Anche Michele De Lucchi, dagli anni Novanta, lavora quasi esclusivamente con il legno. «Dopo le sperimentazioni degli anni Ottanta, è subentrato in me un bisogno di rassicurazione e questo ha riorientato la mia ricerca verso materiali più puri come il legno che, con la sua forma, colore, profumo, può essere lavorato in tanti modi, senza produrre inquinamento, con un ciclo di vita naturale che può essere facilmente controllato. Da molti anni la mia esperienza progettuale si avvicina più al lavoro dello scultore perché mettere in moto le mani amplifica l’orizzonte dell’immaginazione. E amo lavorare il legno massello nel modo meno convenzionale».