Le liste volute da Enrico Letta sono criticabili per molte ragioni, ma non con gli argomenti usati dai suoi avversari. Il caso più clamoroso è quello di Raffaele La Regina, che ha ritirato la sua candidatura dopo lo scandalo suscitato da alcuni suoi vecchi tweet e post contro Israele, ma le critiche hanno coinvolto anche un’altra giovane capolista, Rachele Scarpa, pure lei per le sue parole su Israele, comunque di diverso tenore. Nessuna delle due vicende dimostra comunque che nel Partito democratico vi sia un problema di antisemitismo, così come da ultimo il caso di Marco Sarracino, il terzo dei cinque giovani capolista voluti da Letta, sotto accusa per un post su Facebook in cui celebrava l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, non dimostra certo l’esistenza di una cellula leninista all’interno del Pd. Semmai, tutti e tre, dimostrano che nel partito, prima della tanto declamata questione sociale, farebbero bene a occuparsi della questione social.
Per quanto riguarda il caso La Regina, bisognerebbe anzitutto distinguere le critiche alle scelte dello Stato di Israele dalla negazione del suo diritto a esistere. Ma a mio personale parere, per quanto capisca che si tratta di un confine molto labile, bisognerebbe anche distinguere la radicale e pregiudiziale ostilità verso Israele dall’ostilità verso gli ebrei. So bene che l’antisemitismo oggi si nasconde spesso dietro le critiche allo Stato ebraico, ma questa mi pare una ragione di più per sforzarsi in ogni modo di distinguere attentamente le due cose. Anche perché esiste pure il rischio inverso: che si finisca cioè per legittimare politici come Donald Trump, per via della sua politica estera filoisraeliana, nonostante protegga e coccoli tutti i peggiori gruppi neonazisti degli Stati Uniti.
I giovani democratici candidati da Letta non sono il Ku Klux Klan né i Proud Boys, e nemmeno sostenitori di Hamas. La spaventosa regressione politico-culturale di cui le liste del Pd sono lo specchio, e che è giusto denunciare, non ha a che fare con l’antisemitismo. Ha a che fare, semmai, con l’antiamericanismo e con l’antioccidentalismo, da intendersi però non come ideologia, bensì come moda, come posa, come riflesso condizionato, come ultimo anacronistico retaggio di un certo conformismo culturale (che ovviamente non richiede particolare cultura). Non è il sintomo di una radicalizzazione ideologica, che non c’è da nessuna parte, ma di una sclerosi burocratica che tenta di ridarsi un’apparenza di forza aggrappandosi al peggio di un repertorio stantio e al tempo stesso contraddittorio con la sua natura e la sua prassi quotidiana, una sorta di assurdo breznevismo democristiano ben rappresentato dall’attuale segretario (ma anche, cambiando quel che c’è da cambiare, dal suo predecessore).
Penso in particolare a un’intervista a Repubblica di un anno fa in cui Letta, all’indomani del ritiro americano da Kabul, si buttava sulle posizioni di Gino Strada e parlava di Afghanistan, Iraq e Siria come delle «tre guerre sbagliate dell’Occidente», mettendo insieme una guerra che la sinistra democratica, italiana e occidentale, aveva giustamente appoggiato (quella in Afghanistan), una guerra che la sinistra italiana aveva giustamente contrastato (quella in Iraq) e una guerra che semplicemente l’Occidente non aveva mai fatto, quella in Siria, dove semmai, anzi, all’Occidente è stato rimproverato proprio di non aver voluto intervenire, nonostante i massacri e persino l’uso di armi chimiche contro la popolazione da parte del regime di Assad. E adesso ce la vogliamo prendere con i tweet di La Regina?
Il problema va persino al di là del Pd, e non ha a che fare con l’antisemitismo, ma con l’antipolitica. Ha a che fare con il populismo e soprattutto con il cialtronismo di chi in questi anni, a seconda delle convenienze, è passato come se nulla fosse dal sostenere con entusiasmo il governo di Mario Monti al tessere l’elogio di Jean-Luc Mélenchon. Una specie di variante dorotea del doppio binario togliattiano, capace di mescolare una retorica sempre più radicale da esibire in campagna elettorale con scelte di governo di segno opposto. Una disinvoltura che si è trasferita anche nella lotta interna, dentro un partito in cui le stesse persone, da circa trent’anni, vanno al governo in nome della terza via e tornano all’opposizione tuonando contro il blairismo dei loro rivali, vincono i congressi promettendo la rivoluzione e vanno a Palazzo Chigi con lo zar.
L’ultimo passo di questa progressiva perdita di qualunque senso di sé e della propria storia è stato l’abbraccio con il Movimento 5 stelle, che ha significato la definitiva abiura di una cultura politica riformista e di tante difficili battaglie per costruire una credibile sinistra di governo.
Non c’è dunque nulla di strano nel fatto che i giovani dirigenti cresciuti a una simile scuola si scagliassero, a suo tempo, contro l’Expo o contro il Tap, proprio come i loro quasi coetanei grillini Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, o nel fatto che oggi debbano affrettarsi a chiudere i propri profili social, come adolescenti costretti dall’improvviso arrivo dei genitori a mettere ordine nella cameretta, nascondendo in soffitta i poster più imbarazzanti. Quello che dovrebbe farci riflettere è che su questa linea politica e con questo modo di procedere, anche nella selezione delle candidature, l’alleanza tra Pd e Movimento 5 stelle presto non sarà più un problema, perché saranno diventati la stessa cosa. È questa la vera responsabilità di Letta e del suo gruppo dirigente.
Il problema, insomma, non è certo La Regina. Il problema è sempre il re (pro tempore).