Cinema e stileL’Elvis di Baz Luhrmann è mitologia e moda, a prova di Gen Z

I completi usati nel nuovo film dedicato alla leggenda di Memphis vengono affilati nelle vestibilità: alcuni sono un omaggio a quelli con cui Presley è stato fotografato in alcuni momenti importanti della sua vita, altri sono variazioni sul tema. L’obiettivo, però, è uno solo: rendere l’artista accessibile ad una nuova generazione, che poco avrebbe capito il profluvio di paillettes e frange

Baz Luhrmann alla premiere di “Elvis” (LaPresse)

Elvis è vivo (di nuovo). Lo si dice da tempo immemore, addirittura da poco dopo la sua morte il 16 agosto 1977, ma Baz Luhrmann ha contribuito a buttare benzina sul fuoco della mitologia dell’artista di Memphis, con l’omonimo lungometraggio. Una ennesima resurrezione, a favore principalmente di una generazione che non era ancora entrata in contatto con la fenomenologia del camionista divenuto santino laico: non un modo di dire, visto che il film ha già incassato oltre 155 milioni di dollari (più di 2 vengono dall’Italia) e i brani di Elvis hanno fatto registrare un incremento dello streaming del 67% sulle piattaforme americane, mentre la colonna sonora del film è in testa alla classifica Bilboard di settore. 

Un successo già visto: in fondo era già successo esattamente 20 anni fa, quando Junkie XL, musicista esperto di colonne sonore (ha realizzato quelle di diversi successi mondiali, da “Kung Fu Panda 2” passando per “Deadpool” e “Mad Max: Fury Road”) remixò “A little less conversation – il primo a ricevere il permesso di farlo dalla Elvis Presley Estate. Già allora fu, di nuovo, Elvis mania, e conseguenti file ingrossate per entrare a Graceland, la casa mausoleo nella quale oggi i Maneskin hanno girato il video di “If I can dream”, altro successo inserito nella colonna sonora originale del film. 

Si tratta di un lungometraggio di 2 ore 39 minuti che non vuole essere esaustivo, pur con una durata che sottenderebbe a certe ambizioni, e neanche svelare segreti fino ad oggi sconosciuti: i “presleyani” duri e puri non ci troveranno nulla che non sappiano già, e invece potranno lamentarsi di diverse inesattezze storiche usate volutamente per aggiungere dramma e azione ad una trama, e ad una vita, già pieni di entrambe. Non ci sarà mai, ad esempio, il pubblico disvelamento delle malefatte del machiavellico Colonnello Parker, nel film sbugiardato direttamente da Elvis sul palco di Las Vegas. 

Questo non toglie che l’operazione revival courtesy di Lurhmann abbia dei meriti. Il suo Elvis è attualizzato, reso comprensibile anche nel guardaroba, ad una nuova generazione, che poco avrebbe capito il profluvio di paillettes e frange, retaggio della tradizione estetica del country: ad aiutarlo nell’operazione, oltre la fidata costumista da Oscar (e moglie) Catherine Martin anche Miuccia Prada, amica trentennale con la quale aveva già collaborato sia per “Romeo + Juliet” che per “Il grande Gatsby”. 

I completi vengono affilati nelle vestibilità: alcuni sono omaggio a quelli con cui Elvis è stato fotografato in alcuni momenti importanti della sua vita (come la foto della presentazione ufficiale della figlia Lisa Marie), altri sono variazioni sul tema. Il completo prugna con camicia in raso nero e stivaletti Chelsea non sembrerebbe neanche di Elvis, se non fosse per la cintura di metallo e perle, l’unica concessione alla stravaganza voluta da Miuccia. Più facile il compito con Priscilla, interpretata dall’attrice Olivia DeJonge: la figlia adottiva di un ufficiale dell’Air Force di stanza a Wiesbaden (nella Germania dove incontrerà, appena 14enne, il 24enne Elvis) sfoggia completi di Miu Miu che si iscrivono nella lunga tradizione pradesca dell’esplorazione di decadi che vanno dagli Anni ‘60 ai ‘70. 

Il completo pantalone in broccato con perle e frange, indossato da Priscilla al concerto di apertura della serata a Las Vegas appare autenticamente aderente sia all’estetica della moglie del “king”, che al brand. Il tailleur tweed arancio, della foto della nascita dell’erede, invece, è diretto discendente della sfilata Ugly chic di Prada, la p/e 1996 entrata negli annali come la collezione nella quale Miuccia Prada diede un nome a quella sua estetica caratteristica, capace di trovare la piacevolezza anche in ensemble apparentemente dimessi. 

Ma oltre alle maniacali ossessioni tipiche del regista australiano, il merito della pellicola è di non perdere mai ritmo: magniloquente, sontuosa e animata sin dall’inizio da vibrazioni che vanno a ritmo di blues, o conturbanti gospel simili a quelli dai quali il cantante fu attratto sin da bambino, nelle chiese evangeliche che frequentava con la famiglia, la sensazione è quella di un incessante giro sulle montagne russe. 

Tutto sullo sfondo di una Las Vegas nella quale nascono giganteschi hotel, e si coltivano altrettanto grandi solitudini, come quella alla quale viene costretto Elvis dal suo manager (che però, a differenza di quello che fa intendere il film, non sarà l’unico colpevole della dipendenza dai farmaci), e quella dello stesso Colonnello Parker, che proprio nei casinò di Las Vegas continuerà a vagare, sperperando denari e fortune, fino alla fine dei suoi giorni. La bravura del giovane trentenne Butler è quella di non cadere nella mimesi, nell’effetto Tale e quale, con il cantante più imitato di tutti, il primigenio officiante di ogni breve matrimonio che inizia in una cappella dal gusto trash sulla Strip di Las Vegas, ma regalarci una sua personale versione dell’artista che, da solista, ha venduto più dischi di chiunque altro nella storia. 

 

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Una leggenda, quella di Elvis, che ha già una sua bibliografia cinematografica dedicata – che comprende “Elvis” (1979) con Kurt Russell, “Elvis and the beauty Queen” (1981) con Don Johnson e “Elvis” (2005) con Jonathan Rhys Meyers – ma che, in questo caso, ha addirittura il benestare dell’erede unica della sua fortuna: la figlia Lisa Marie Presley, che ha molto apprezzato la prova attoriale di Butler. Il motivo per il quale il film è però riuscito, contemporaneo (e parla ad un pubblico assai ampio) non è solo per il ritmo rutilante o per gli eccessi – che funzionano sempre bene sul grande schermo. 

Se Elvis è universale è perché parla – pur attraverso la voce dell’imputato principale e del colpevole unico, secondo la voce popolare, della sua morte, il Colonnello Parker – della difficoltà nel trovare la propria voce, da intendersi non solo come attitudine a far funzionare le corde vocali, quanto all’inclinazione, alla personalità, alla direzione da prendere nella vita. 

Un percorso che, nel film “Elvis”, appare forgiato forzatamente e criminalmente dal Colonnello – che anche nella vita reale, per via delle sue eccessive richieste economiche, impedirà al cantante di imbarcarsi nel ruolo da protagonista drammatico in “È nata una stella”, che avrebbe potuto cambiarne la carriera. 

Un percorso del quale il cantante non riuscirà mai a prendere le redini in maniera indipendente, vittima di un rapporto con il Colonnello che lo pone sempre in una posizione di subalternità, che lo deresponsabilizza, impedendogli di crescere come artista, uomo e come essere umano. Una strada verso l’inferno lastricata di glitter e sempre più cerone, a nascondere gli affanni e gli anni che passano, senza regalargli mai la maturità, o anche solo la gioia di aver perseguito, indipendentemente la propria strada. Un errore che molti, ogni giorno, compiono, pur senza diventare mai Elvis Presley.